«Torturato per sei mesi in Egitto»

Che Mamdouh Habib, tassista di 48 anni e padre di quattro figli, avesse passato tre anni d’ inferno nelle prigioni «scelte» per lui dagli Stati uniti, si era capito immeditamente nel gennaio di quest’anno, quando era sceso dall’aereo che da Guantanamo l’aveva riportato a casa, in Australia, paese dove viveva dal 1980. Ombra di quello che era stato ai tempi della libertà, pallido e smarrito, Habib tornava allora da una lunghissima via crucis iniziata in Pakistan, dove era stato catturato dagli americani nell’ottobre del 2001 con l’accusa di essere stato conoscenza degli attacchi dell’11 settembre contro New York e Washington prima ancora che avvenissero. Spedito dagli Usa in Egitto, sua terra d’origine, era stato imprigionato e torturato per sei mesi prima di essere trasferito a Guantanamo, dal quale era stato liberato oltre due anni dopo poiché le accuse contro di lui non erano state provate. La storia è stata rilanciata ieri dalla Bbc con un’intervista ad Habib che ha raccontato di persona le torture e i trattamenti inumani a cui è stato sottoposto in Egitto per ben sei mesi tra il 2001 e il 2002. Non sa con precisione da chi venisse detenuto ma, dice, «vedevo americani, australiani, pakistani, egiziani». E racconta: «Sono stato picchiato, sottoposto ad elettroshock, privato del sonno, mi hanno iniettato farmaci, fatto il lavaggio del cervello». Veniva fatto sentire come un bambino, e fu costretto a confessare. «Ripetevo quello che volevano sentirsi dire», racconta alla Bbc. Così ammise con i suoi inquisitori che aveva aiutato ad addestrare nelle arti marziali i dirottatori dell’11 settembre – una dichiarazione che ha in seguito ritirato.

Rilasciato senza incriminazioni nel gennaio scorso, ha negato ogni coinvolgimento in attività terroristiche. Ma nonostante il rilascio Mamdouh Habib è sempre rimasto sotto stretta osservazione del governo australiano che, dichiaratamente, lo avrebbe a sua volta messo sotto inchiesta se le leggi in vigore al tempo del suo arresto lo avessero consentito. Ma allora la legislazione in vigore era decisamente più garantista di quella approvata ieri dal parlamento australiano che ha passato un duro pacchetto anti terrorismo.

La storia di Habib torna come una sorta di «memento» oggi, nel momento in cui gli Stati uniti difendono il loro operato nell’imprigionamento e trasferimento illegale da un paese all’altro di detenuti che nella migliore delle ipotesi vengono privati di elementari diritti di difesa e nel peggiore vengono sottoposti ad abusi e torture, nel segreto più totale.