Torniamo a parlare di pensione pubblica

RiformaTfr: la bocciatura è un fatto positivo

E’ un fatto positivo che il conflitto d’interessi permanente del Presidente del Consiglio, le pressioni della lobby delle assicurazioni, la tirchieria della Confindustria, abbiano bloccato il Decreto sulla devolution del Tfr ai fondi pensione. Può essere un fatto positivo l’insabbiamento del Decreto, se esso servirà a ripensare a tutto.
Come si sa il Tfr è salario. E’ una quattordicesima mensilità che viene accantonata e poi consegnata al lavoratore quando cessa il rapporto di lavoro. E’ una sorta di risparmio forzato che il lavoratore subisce. Da sempre le imprese usano questo risparmio del lavoratore come un prestito gratuito alle proprie finanze. Per questo esse oggi chiedono delle compensazioni rispetto alla possibilità che tutto il Tfr venga non più accantonato per il lavoratore ma direttamente versato nei fondi pensionistici. Già qui siamo in un mondo rovesciato. Dovrebbero essere i lavoratori, semmai, a ricevere risarcimenti per il fatto che una quota del loro salario non è per essi immediatamente disponibile, ma serve a finanziare le imprese. Ma a questo mondo rovesciato siamo abituati. La vicenda assume un aspetto ancor più paradossale però con l’ultimo Decreto affossato dal Governo. Già da tempo i lavoratori possono devolvere parte della loro liquidazione nei fondi pensionistici integrativi. I nuovi assunti possono già oggi investire tutta la liquidazione nei fondi pensionistici, perché allora un nuovo Decreto? Perché la grande maggioranza dei lavoratori questo investimento non l’ha fatto. Il fondo pensionistico più rilevante, quello dei metalmeccanici, conta circa 350.000 iscritti su 1.500.000 di lavoratori interessati, in tutte le altre categorie le percentuali di adesioni sono molto più basse. Da qui la campagna secondo la quale la previdenza integrativa sinora è fallita e occorrerebbero ben altri interventi per farla decollare. Il fatto strano è che proprio coloro che, secondo l’opinione diffusa, avrebbero più bisogno della pensione integrativa, non accedono ad essa. I giovani, i precari, i lavoratori delle piccole e medie aziende e a salario più basso, non entrano nei fondi pensione. Sono i lavoratori con stipendi medio-alti, quelli che hanno più sicurezza del posto di lavoro e sono più vicini alla pensione, che accedono ai fondi. La ragione di questo è abbastanza ovvia. Per i lavoratori la pensione integrativa è appunto integrativa. E quindi investono su di essa coloro che hanno reddito e sufficiente tranquillità sul futuro per poterlo fare. Tutti gli altri aspettano, o perché hanno paura del futuro o perché vivono una tale condizione di precarietà, che non si pongono nemmeno il problema. La riforma pensionistica attuata nel 1995 dal governo Dini, con il consenso delle organizzazioni sindacali e il dissenso di massa dei metalmeccanici e di tanti altri, ha costruito un mostruoso doppio regime pensionistico. Le generazioni più anziane hanno un sistema di calcolo della pensione che garantisce un buon risultato. Quelle più giovani no.

Per esse la futura pensione si calcola solo sulla base dei contributi effettivamente versati e non sugli anni di lavoro, di vita e sulle retribuzioni percepite.

Così i giovani, cioè quelle generazioni precarie che un giorno lavorano e l’altro no, rischiano di arrivare alla vecchiaia senza aver accumulato contributi sufficienti per avere una pensione dignitosa. E’ bene ricordare che questo è il passato che ritorna. Quando negli anni Sessanta e Settanta ci si batteva per un sistema pensionistico più giusto, si voleva prima di tutto cancellare la condizione vergognosa di donne e uomini, che avendo lavorato tutta una vita non avevano accumulato contributi per una pensione degna di questo nome. I giovani della società postfordista avranno le pensioni dei bisnonni braccianti e muratori.

L’azione congiunta della Legge Dini, del Pacchetto Treu e della Legge 30, ha così prodotto un disastro sociale. Per ovviare ad esso il toccasana sarebbero le pensioni integrative. I giovani, investendo la loro liquidazione dei fondi, dovrebbero avere una pensione più alta. Siccome però i giovani non lo fanno, si è pensato di fare un Decreto che in qualche modo li spinga a questa scelta. Così si è affermato il principio vergognoso del “silenzio-assenso”, secondo il quale chi non sceglie vede comunque versata la sua liquidazione nei fondi pensione. Il Decreto avrebbe poi dovuto definire un sistema di convenienze che garantisse guadagnano per tutti: i lavoratori con le pensioni, le imprese con le banche, il sistema economico con i fondi. Qui è cascato l’asino. Perché la doppia natura dei fondi pensione, insieme previdenza dei lavoratori e investimento finanziario, si è manifestata in tutta la sua contraddittorietà. Le assicurazioni vogliono la possibilità di speculare. Le aziende vogliono i soldi delle banche. Le banche vogliono non vogliono regalare niente a nessuno. I sindacati difendono i fondi contrattuali. In questo contesto non si è trovata la quadra. Perché non si può trovare.

La verità è che i fondi pensione sono un inganno sociale. Prima di tutto perché fanno credere che avere una pensione dignitosa non costi niente al lavoratore e che solo una sua pigrizia gli impedisca di farlo. La verità è che prima i lavoratori avevano una pensione pubblica dignitosa più la liquidazione, oggi avranno una pensione complessiva più bassa, senza la liquidazione. I lavoratori dovranno pagare di più, rinunciare a più salario, per avere meno risultati. Nella sostanza l’operazione fondi pensione riduce il salario disponibile, è una diminuzione del suo potere d’acquisto. Per questo solo i lavoratori che stanno meglio investono nei fondi. Ma l’inganno è più profondo, esso si basa sulla caratteristica stessa del fondo. Questi 14 miliardi di euro all’anno, che dovrebbero finire nelle pensioni integrative, dove vanno? Vanno in giro a speculare. Poco se si tratta di fondi contrattuali, molto se si tratta di fondi aperti legati alla grande finanza. Una parte del salario va quindi in giro a far danni ai lavoratori. Sono i fondi che chiedono i licenziamenti, magari non quelli pensionistici, ma certo quelli speculativi nei quali anche i fondi pensione investono. Insomma, alla fine di questa colossale partita di giro, si scopre che il lavoratore ha messo una parte del proprio del salario nelle mani di chi domani chiederà il suo licenziamento, proprio per tutelare la redditività dell’investimento fatto.

D’altra parte i fondi, per funzionare, richiedono un ingente finanziamento pubblico. Questo avviene attraverso le esenzioni fiscali. Il libero mercato, come la chiesa cattolica, ha fede assoluta nei suoi dogmi, ma pretende che lo stato glieli sostenga. Così, senza il finanziamento che viene dalle esenzioni fiscali, i fondi pensione integrativi non potrebbero diventare un fenomeno di massa. In conclusione, che senso ha tutto questo? Visto che lo Stato comunque deve pagare, e vista che la motivazione di fondo è quella di prevenire il disastro sociale che l’attuale sistema pensionistico, combinato con la precarietà del lavoro, prepara per le giovani generazioni, non sarebbe meglio spendere i soldi diversamente? Non sarebbe meglio usare i soldi delle esenzioni fiscali, per pagare i contributi pubblici alle nuove generazioni? Non sarebbe meglio, se proprio si vogliono garantire pensioni integrative, che queste – come in Germania – fossero affidate agli Enti pubblici, ove costano meno e rendono di più? Non sarebbe meglio, insomma, abbandonare anche qui la sbornia liberista che ha così negativamente condizionato il sindacato e la sinistra? Il fallimento del Decreto del governo è allora un’occasione d’oro per ridare forza e valore alla pensione pubblica.