Torna la paura sulle borse mondiali

Qualcosa si è rotto, per le piazze mondiali. Dopo mesi di cauti rialzi, da un mese a questa parte è un susseguirsi di «brutte settimane». Poi ieri, il cedimento generale, impetuoso, inarrestabile, mondializzato.
Nella serata di lunedì Wall Street aveva lasciato sul terreno, come si dice, quasi l’1% con il Dow Jones e poco di più con il Nasdaq. La triste normalità di questi giorni, sembrava. E invece, nella notte, prendevano a crollare le borse latinoamericane (-10% quella colombiana, tra il -4 e il -5 le altre); poi esplodeva Tokyo, ben più grande e «pesante» in termini di capitalizzazione: -4%. Poche ore dopo la febbre si trasmetteva alle piazze europee, aggravate anche dall’indice tedesco Zew, in calo.
Unica, naturalmente, la spiegazione. Il grande interrogativo che domina la finanza globale è infatti uno solo: la Federal Reserve alzerà ancora i tassi di interesse? Già al livello attuale – il 5% – sembrano decisamente eccessivi. Ma il neopresidente della Fed è considerato un monetarista abbastanza dogmatico, e sono perciò in grande maggioranza gli analisti convinti che cercherà di combattere il «nemico principale» previsto dalla sua teoria, ossia l’inflazione. Tenerla a freno, mentre si moltiplicano i segnali di surriscaldamento dei prezzi (anche, ma non solo, a causa dei forti incrementi dei costi energetici), significa in primo luogo rendere più caro il costo del denaro, rallentare gli investimenti, cmprimere i consumi.
E questo i mercati stanno anticipando. Sulla base di una prospettiva di rallentamento, gli investitori «alleggeriscono il portafogli» dei titoli che avevano guadagnato di più nei mesi scorsi: energetici, minerari, assicurativi, ecc. In Europa sono andati in crisi anche i titoli del «lusso», per ovvii motivi. Una conseguenza positiva, in modo indiretto, questa caduta ce l’ha: il prezzo del petrolio è tornato sotto i 69 dollari al barile, perché un’economia che rallenta richiede meno energia. Insieme al petrolio sono in discesa anche i prezzi delle altre materie prime «non riproducibili», nonché i tradizionali «beni rifugio» come l’oro (tornato sotto i 600 dollari l’oncia). Tanto per farsi un’idea: Londra ha perso l’1,80%, Parigi -2,24%, Francoforte -1,92%, Milano -1,40%.
Centinaia di migliaia, dunque, i miliardi di dollari (e di euro) bruciati in questa tornata. E che non vi siano attese di una ripartenza a breve termine lo testimoniano i rendimenti dei titoli di stato Usa con scadenza a 10 anni: rendevano, ieri sera, il 4,96%. Ossia meno dei tassi di interesse «pronti contro termine». Un nuovo episodio di quella «inversione dei tassi» considerata come uno dei segni più certi di recessione in arrivo.
Wall Street, in apertura di giornata (le 15,30 ora italiana) aveva dato qualche speranza di recupero, grazie anche al dato relativo all’aumento dei prezzi alla produzione (maggiore del previsto), che sembrava confermare le fosche previsioni su un prossimo rialzo dei tassi. Poi tornava sotto zero, dopo un lungo e impietoso altalenare.
Uno degli effetti di queste tensioni è infine monetario: L’euro scende ai minimi da sei mesi sul dollaro, a 1,2548. Se per la produzione americana ciò significa guai, perché diminuisce la già scarsa competitività delle merci Usa, per il mercato interno significa al contrario maggiore afflusso di capitali stranieri, attratti dagli alti tassi di interesse sul debito. Insomma: ci chiedono di finanziare ancora una volta i loro debiti immensi e crescenti. Cicaloni.