La sua data è nota da un pezzo, visto che coincide con l’anniversario dello scoppio della seconda guerra del Golfo. Anche l’appello che la proclama è pronto da un pezzo e ha già viaggiato molto: dall’Europa ai forum sociali mondiali di Bamako e Caracas. Ma tutto ciò non basta ad assicurare, alla giornata contro la guerra e le occupazioni del 18 marzo, la stessa riuscita delle scadenze che l’hanno preceduta, a partire da quel 15 febbraio 2003, salutato come l’avvento della seconda potenza mondiale. E non è un mistero per l’assemblea nazionale del movimento contro la guerra che da ieri vede duecento partecipanti da tutta Italia discutere negli spazi della facoltà d’Architettura di Firenze.
A tre anni dall’aggressione degli Usa all’Iraq, le ragioni della mobilitazione sono evidenti, ne prende atto anche l’appello del Fse che chiede ai movimenti sociali di scendere in piazza per il ritiro incondizionato delle truppe straniere dall’Iraq e contro l’estensione della guerra preventiva a Siria, Iran e Medio Oriente per il quale si reclama, invece, la fine dell’occupazione israeliana e la risoluzione pacifica della questione kurda. Molti interventi – come quello di Muhlbauer – sottolineeranno come la parola d’ordine del ritiro esca stemperata dalle reiterate dichiarazioni di Berlusconi o dall’enunciazione nel programma dell’Unione. Ma «che lo attui l’uno o l’altro degli schieramenti – dice Fabio Alberti di “Un Ponte per” – sarà un successo dei movimenti che hanno incalzato il governo».
Al contrario, il ritiro appare «tutt’altro che scontato, alla luce degli ultimi proclami di Bush» ad Alfio Nicotra, responsabile Pace del Prc, che insisterà sull’attualità della parola-chiave. Nei sondaggi, la maggioranza che pretende il ritorno a casa dei “nostri” ragazzi non ha mai vacillato e le campagne diffuse per la smilitarizzazione dei territori, la riconversione delle produzioni e il disarmo nucleare, la moltiplicazione lungo lo Stivale di corsi di laurea e di assessorati alla pace, testimoniano il radicamento profondo delle istanze pacifiste. Istanze, però, che domandano nuova visibilità dopo aver scontato un certo isolamento (come denuncia la genovese Bertulaccelli) in un contesto dominato sia dallo scenario internazionale (solo per citare: le minacce a Siria e Iran, l’adozione dell’atomica a bassa intensità da parte degli Usa) ma dall’imminenza delle elezioni politiche italiane che rendono tutto più difficile: gli attivisti, per Alberti, sono «distratti» dalla campagna elettorale e i settori più moderati del centrosinistra «stanno lavorando ai fianchi il movimento», dice Bernocchi. Elementi che concorrono al «rischio di restringere il fronte», avverte l’esponente del “Ponte” avviando un dibattito che vedrà l’alternanza tra considerazioni politiche sulla piattaforma e la formulazione di proposte operative. «Proprio per la fase politica in cui si colloca, a tre settimane dal voto, è fondamentale che sia una grande manifestazione di quel popolo la pace che in questi anni ha chiesto un’alternativa radicale alle logiche liberiste», spiega Roberta Fantozzi, responsabile Immigrazione del Prc.
L’obiettivo del 18 marzo «è un’altra politica estera», incalza il cobas Bernocchi, tra i più scettici sulla possibilità di un «governo amico». Il forum policentrico di Caracas, hanno ricordato tra gli altri Nella Ginatempo di Bastaguerra e Bruno Steri dell’Ernesto, ha esteso la richiesta del ritiro delle truppe da ogni teatro di guerra. Il disobbediente Casarini ha invitato ad assumere l’elemento del diritto di resistenza, richiamato da altri interventi, nella ricerca sulle pratiche dei movimenti mentre Matteo di Mani Tese suggerisce di colpire gli aspetti di predazione economica della guerra globale. Dei nessi tra occupazione alleata e privatizzazione del petrolio iracheno spiega tutto Dawod Salman, sindacalista di Bagdad venuto a sollecitare la nascita di un comitato internazionale di solidarietà con i lavoratori del suo paese. Raffaella Bolini ha rivendicato poi il diritto a criticare le modalità in cui storicamente si concretizza il diritto di resistenza. Dall’appuntamento di Bamako, la responsabile Cooperazione internazionale dell’Arci, ha riportato la discussione delle reti africane sugli integralismi (compreso quello teo-con) come effetto della guerra permanente. Non regge, nel dibattito fiorentino, la tesi per cui il “nemico del mio nemico sia mio amico” che tenta il settore cosiddetto “antimperialista” dell’assemblea.
C’è anche chi, come Massimo Torelli di Firenze, ha proposto di agire, più che sulla piattaforma, sulle leve culturali e sull’immaginario collettivo per ricostruire l’egemonia e riempire di nuovo le piazze. Una discussione fitta e articolata da cui fuoriesce la «complessità della lotta politica in corso nell’Iraq» (Alberti. Dalla difficoltà in cui navigano le reti “no war”, secondo Mometti del Tavolo Migranti, se ne esce affrontando di petto la questione del “complesso militare-industriale”. Servirebbe, per il milanese Maestri, una discussione del prossimo Fse di Atene sulle politiche della difesa e della sicurezza. Come dice il titolo dell’evento fiorentino, “la pace è l’unica sicurezza”. Diversi interventi si concentrano sull’irricevibilità delle politiche di peace-keeping e sul ruolo dei movimenti di resistenza in Iraq o in Palestina (ancora Steri, ad esempio). Verrà ribadito il no al nucleare anche nella versione “civile”, troppo spesso grimaldello per politiche di riarmo. Infine, una miriade di proposte di vertenze e campagne si succederà fino all’ultima sessione dell’assemblea che sviscera il nesso tra guerra permanente, repressione, migranti e rifugiati. Quando si parla di “fronte interno” nessuno sottovaluta la «preoccupazione per i punti deboli del programma dell’Unione», ricorda Stefania Giugni, coordinatrice della sessione.
Oggi, l’assemblea si chiuderà recependo e rilanciando l’appello per il 18 marzo e per le azioni che seguiranno già dal 19, come «l’ispezione popolare alla base di Aviano», suggerita da Lisa Clarke, come le campagne per leggi ad iniziativa popolare da scrivere sulla scorta dell’esperienza toscana per la ripubblicizzazione dell’acqua e, ancora, la valorizzazione delle esperienze di dissenso tra militari e loro familiari, la denuncia della privatizzazione della ricerca in atenei sempre più coinvolti nei giochi di guerra, lo studio di percorsi di riconversione o la proposta di creazione di una zona denuclearizzata in tutto il Medio Oriente.