Questo pregevole lavoro di Umberto Coldagelli (Vita di Tocqueville, Donzelli, pagg. 340, euro 24,50) è molto più di un libro di occasione uscito per il bicentenario della nascita del grande pensatore politico francese. Appassionato frequentatore delle carte di Tocqueville, Coldagelli offre una ricostruzione d’insieme di un classico della politica. Proprio l’aristocratico francese, con «un corpo di mediocre statura, una certa instabilità umorale e una reale timidezza ai limiti della goffaggine», è stato uno dei primi teorici della società di massa. Vissuto in un turbolento arco di tempo scandito da rivoluzioni, barricate, restaurazioni monarchiche, cadute di regime e repressioni egli ha saputo cogliere l’essenza della politica, nei suoi rovesci meschini e nelle sue grandi speranze di oltrepassare i limiti del proprio tempo. Coldagelli racconta la vita, le passioni, le inquietudini di uno studioso che adottò il viaggio come strumento di comparazione sociale e istituzionale.
Consapevole dell’esaurimento storico del lungo ciclo politico dell’aristocrazia, Tocqueville scrutò con rassegnato disincanto il pauroso procedere verso un’epoca senza più qualità. Lo allarmava il trionfo di una folla senza più freni in seguito all’avanzata della secolarizzazione. Gli atteggiamenti di un uomo ormai fuori del tempo che protestava contro la forza corrosiva del dubbio e il venir meno del sano tradizionalismo cattolico sono però solo una parte del pensiero di Tocqueville. L’altra parte – spiega Coldagelli – è quella che lo tramuta da acuto interprete delle tendenze in atto nella vecchia Europa in un precoce sentore delle contraddizioni più irriducibili del moderno. Il punto debole del moderno gli apparve risiedere proprio nel suo tratto distintivo, cioè nell’individualismo radicale. Una sola alternativa era a disposizione per arginare la deriva individualistica che separava tra loro gli atomi della società e diffondeva una irreparabile perdita di civitas: il recupero del sacro per precisare delle correzioni etiche al moderno ricco e disincantato.
Anche una nuova aristocrazia politica, composta da uomini capaci di avvertire il richiamo del generale era invocata per governare una democrazia di massa. Accanto all’élite reclamava l’intervento di un supplemento religioso. Come scrive Coldagelli, «perduta la fede, restava in Tocqueville la funzione storica delle ideologie, a cominciare da quelle religiose». La sua ricetta era in questo piuttosto semplice. Prevedeva una integrale sovranità della ragione per le élite politiche e una dose quotidiana di religione per gli strati di popolo esclusi dalla raison e quindi più esposti alla perdita di valori. Come un odierno ateo devoto, anche Tocqueville ribadiva «io non sono credente» ma al suo liberalismo non conferiva affatto un impianto laico perché postulava una alleanza tra religione e moderno. Solo sotto l’ombrello protettivo della religione sarebbe stato possibile mettere insieme eguaglianza e capacità, mobilità sociale e rispetto delle qualità, crescita e coesione, individualismo e comunità.
Lo attraeva, proprio per questo, l’esperienza americana. Egli amava dipingerla come l’esemplare vicenda di un paese che era nato democratico, non lo era diventato dopo una rivoluzione, di una nazione che l’eguaglianza la possedeva ab initio, non la ricercava attraverso la lotta. Grazie alla presenza di ampi spazi, le differenze erano solo provvisorie e non producevano alcuna polarizzazione politica delle classi. Il mito della frontiera e la vastità territoriale assorbivano agevolmente i conflitti che non trovavano espressioni politiche. Per questo, forse, la classe sociale e la fabbrica non attirarono la curiosità di Tocqueville. Egli – spiega Coldagelli – non ritenne «nemmeno per un momento che valesse la pena di fermarsi a conoscere il già famoso centro della metallurgia americana, così come a Boston non aveva avuto la curiosità di visitare il grande complesso dell’industria tessile di Lowell».
Il segreto americano per lui risiedeva nel tramutare le ragioni del conflitto sociale in momenti di una tensione culturale ed etnica. Gli immigrati e i lavoratori avevano dunque bisogno di una unità morale senza la quale tutti restavano isolati e fragili, esposti dinanzi ai legami più istintivi. Per Tocqueville, avverte Coldagelli, la soluzione al conflitto dei tempi moderni consisteva nella «rinnovata ricomposizione del paradossale nesso tra libertà e dogma». Certo, l’America era il paese che mostrava l’improduttività del sistema schiavistico, la rilevanza dei partiti e della socializzazione politica in una democrazia che educava alla partecipazione con la partecipazione. Ma su tutto Tocqueville guardava con trasporto al valore coesivo del dogma. Se il segreto americano risiedeva nella grande disponibilità di spazio in un paese senza tempo, la vulnerabilità dell’Europa consisteva nella presenza di uno spazio assai più contratto entro una straordinaria accumulazione di tempo storico. La fede soltanto avrebbe potuto conservare un ordine sociale così fragile.
Al compimento della sua vita vagabonda, nel corso della quale conobbe il parlamento ma anche il carcere, il successo ma anche la tisi e la depressione, Tocqueville si proiettò oltre il tempo storico della società borghese e dello stesso conflitto di classe. L’eguaglianza socialista e le rivendicazioni di un diritto del lavoro lo videro acerrimo nemico. Ma la sua descrizione di un homo democraticus, visto come un distratto visitatore della città perché tutto immerso in una società economica e degli affari, coglieva il trend irresistibile del moderno. Più che nella repressione dei rossi, era nella civiltà dei consumi e nell’agiatezza di massa che egli scorgeva l’argine all’iperpoliticismo. L’homo democraticus preferirà il consumo alla politica. Immerso negli affari e nei traffici, nessuno si lascerà più catturare da un capo imprudente o da un innovatore troppo ardito. Il mercato curerà il malessere moderno. Non nelle alleanze tra trono e altare, ma nella forza espansiva del consumo si troverà rimedio al male assoluto della rivoluzione con la sua «politica dell’impossibile». L’ordine sarà salvo ma la libertà erosa.
Proprio in questa percezione dell’aporia di una spoliticizzazione ottenuta tramite le agenzie del mercato, Coldagelli giustamente rinviene lo sguardo profetico di un autore inquieto che vedeva aperti anche nella democrazia profondi problemi di libertà.