Fiom: «Fatturano miliardi con due dipendenti. Il referendum? La prima battaglia da sostenere»
Perché difendere il referendum sul lavoro? «E’ diventato l’unico strumento per arginare gli effetti disastrosi della flessibilità. Le aziende ormai hanno tutti i mezzi per aggirare l’articolo 18. E’ evidente inoltre che, oggi, un’impresa di 15 dipendenti non si può certamente definire artigianale». L’affermazione di Rosi Rinaldi, responsabile lavoro del settore informatico della Fiom nazionale, non potrebbe essere più calzante. Guardiamo al comparto Tlc, «un settore in cui microimprese fatturano miliardi utilizzando tutti gli strumenti dell'”information technology” che consentono una dislocazione diversa delle risorse». Proprio nelle telecomunicazioni il problema della difesa di un lavoro garantito si fa quanto mai urgente. Sono oltre 15mila i posti a rischio immediato per il comparto, cui si aggiunge l’indotto. «Nati sulla bolla speculativa della “new economy” – sottolinea anche Barbara Pettine, responsabile nazionale della Fiom di Roma – c’è un panorama vastissimo di aziende Tlc che si strutturano come imprese familiari e che fanno un ricorso massiccio ai contratti flessibili o, ancora più spesso, utilizzano tecnici ultraspecializzati semplicemente “in nero”, per non superare la fatidica soglia dei 15». Lo stesso, attraverso modalità diverse, si verifica nelle grandi imprese. Nel corso degli ultimi anni si è assistito a processi di dismissione di interi comparti produttivi verso microimprese utilizzate come anticamera al licenziamento. «Moltissime grandi aziende di fronte a una crisi – afferma ancora Rinaldi – tendono a proporre ai lavoratori (sulla scia dell’articolo 47 della 428/’90 che ha legittimato lo scorporo di attività) la realizzazione di una loro nicchia di lavoro per la stessa azienda ma con modalità contrattuali diverse; chiedono a esempio di strutturarsi in cooperative o, semplicemente, “vendono” i lavoratori a microimprese dove la soglia dei 15, sistematicamente rispettata, fa da garanzia al licenziamento senza scrupoli».
Al di sotto della fatidica soglia entra, infatti, in azione la legge 108/’90 che, in caso di licenziamento, prevede come tetto massimo del risarcimento, a carico del datore, il pagamento di sole sei mensilità. «Si tratta ormai di una tendenza generalizzata – ribadisce Rinaldi – ma, certamente, eticamente riprovevole».
Il caso Alcatel (ultimo di una lunga serie: dalla Sip alla Olivetti, senza considerare le vicende Ericsson o Philips) è, in un certo senso, emblematico. La multinazionale francese delle Tlc in gravi difficoltà ha portato i suoi organici, grazie a un uso massiccio delle esternalizzazioni, da quasi 20mila unità alle attuali 4mila, e il “saccheggio” continua. «L’Alcatel – conferma Gino Perri, ex Rsu aziendale, oggi del SinCobas – ha fatto da apripiste a un uso sistematico delle esternalizzazioni. Grazie a una strategia di dismissioni è riuscita a trasformare una realtà primaria del mercato a una “scatola vuota”». L’ultima vicenda riguarda i lavoratori di Alcatel Siette. «Un’intera divisione di circa 1.800 persone è stata venduta», continua Perri. «I lavoratori, in alcuni casi, sono stati indirizzati verso aziende minori, vere e proprie microimprese, in cui il licenziamento è garantito. Il ricorso allo scorporo – conferma – spesso è solo il primo passo verso la cassa integrazione. Per questo viene usato massicciamente dalle aziende in crisi. Potrei fare innumerevoli esempi; ma, per restare all’Alcatel, i lavoratori dello stabilimento di Gorgonzola (130 circa, ndr) sono stati “ceduti” alla Teleinvest in mano a Cianciarini, professore della Bocconi, che si è candidato già all’acquisto di altre due sedi Alcatel. Dopo un anno dalla dismissione, sono stati messi in Cig a zero ore e senza rientro. Lo stesso si è verificato per i dipendenti Alcatel passati alla Pllb che ora si ritrovano coinvolti nel fallimento dell’azienda». Ieri, Rifondazione, attraverso il senatore Gigi Malabarba, ha presentato un’interrogazione a Marzano e Maroni proprio per chiedere al governo «quali iniziative intende intraprendere per arrestare il disimpegno produttivo nel settore delle Tlc e se non sia invece arrivato il momento di cessare di finanziare, con Cig e mobilità, operazioni che, come all’Alcatel, puntano non al rilancio ma alla chiusura delle attività nel Paese». «Per questo – sostiene ancora Perri – la battaglia per il referendum è solo la prima da portare avanti senza scrupoli. L’articolo 18 – conclude – ha in un certo senso arginato gli effetti già deleteri utilizzati dalle grande aziende per avviare licenziamenti di massa mascherati da scorpori, cessioni, dismissioni. Senza quest’articolo, mi dite come potremmo tutelarci?».