«The War Tapes» la guerra a bassa definizione

Ma un arto amputato da un’esplosione assomiglia di più a un hamburger o a un arrosto? La discussione (avvenuta tra i soldati della terza compagnia Charlie del 172° reggimento fanteria Usa) non ha una risposta immediata. Anche se tutti i presenti erano d’accordo che gli intestini umani ricordano le salsiccie di maiale: «basta immaginarsi sul loro sfondo il bancone di un macellaio invece di una vittima le cui urla si fanno sempre più fievoli».
L’osservazione (non l’unica con grotteschi riferimenti alimentari) è riportata nel diario del sergente Steve Pink, 24enne del Massachusetts, dotato di ambizioni letterarie, di uno spirito nervosamente caustico e di due occhi azzurri trasparenti, arrivato in Iraq con un distaccamento della guardia nazionale del New Hampshire dove si era arruolato per potersi pagare il college. Pink è uno dei 5 membri della New Hampshire National Guard che ha accettato di partire per il fronte iracheno dotato di una telecamera Sony minidv, con la quale raccontare la «sua» guerra.
Mandante di questa missione cinematografica è Deborah Scranton, giornalista televisiva (ed ex nazionale di sci americana) cui era stato offerto di essere embedded con le truppe in Iraq. In risposta all’offerta, Scranton ha chiesto invece di poter armare di videocamera alcuni soldati, dirigendo così dagli Usa, via instant mail, 1000 ore di girato che, nelle mani esperte del montatore Steve James (il regista/produttore chicagoano che fu l’anima di Hoop Dreams), sono diventate un documentario di 97 minuti, The War Tapes.
Premiato il mese scorso al Tribeca Film Festival, e uscito venerdì scorso in alcune sale americane (a New York, Washington, Chicago, San Francisco, Boston e in New Hampshire), The War Tapes è stato accolto da recensioni quasi unanimamente entusiaste (fa eccezione il Village Voice, con cui è nato un dibattito) e salutato come il primo autentico documento dal fronte. In realtà, quello di Scranton è l’ultimo (e sicuramente il più efficace) arrivo di una serie di film sull’Iraq che hanno scelto di lavorare raccontando la guerra partendo da punti di vista individuali, immedesimandosi nello sguardo di una serie di personaggi, funzionando a livello minimal, sul quotidiano, e proponendosi quindi come testi «aperti», le cui dinamiche viaggiano al di sotto della frequenza del dibattito politico istituzionale sulla guerra.
Come il documentario di Michael Tucker Gunner Palace, due anni fa (e come le serie tv Military Diaries e Profiles from the FrontLines – rispettivamente di R.J. Cutler e Jerry Bruckheimer, in onda dal fronte afgano su Vh1 e Abc), The War Tapes lavora dal punto di vista dei militari. Mentre recenti film come My Country, My Country (passato a «New Directors New Films») e Iraq in Fragments (premiatissimo a Sundance) illustrano invece storie irachene.
In entrambi i casi si tratta di oggetti costruiti secondo un’idea di documentario (e di riproduzione della realtà) molto basic, spesso superficiale (che quindi si presta a equivoci), che devono funzionare a livello emotivo immediato, farti sentire lì, portarti la guerra in casa (come la docufiction hollywoodiana United 95 voleva fare con i fatti dell’11 settembre). E l’Iraq è una guerra che nelle case degli americani si vive pochissimo. Non solo per la combinazione di censura del governo e autocensura a livello di mezzi d’informazione dominanti: per questa guerra, ai cittadini Usa non è stato chiesto alcun sacrificio. Anzi, gli hanno persino ridotto le tasse. A raccontare l’Iraq ai posteri, quindi, saranno meno i reportage fototelevisivi che gli squarci che ci arrivano obliquamente – dai diari in email dei soldati (vedi l’ultimo New Yorker), dalle lettere alle famiglia, dalle orrende foto di Abu Ghraib e dai video sgranati che arrivamo via internet – o, nel bene e nel male, da film come questo.
La forbice tra la politica che si fa a Washington, o le decisioni che si prendono nella Green zone di Baghdad, e il vissuto dei soldati Usa in Iraq non potrebbe essere più evidente di come è descritta in The War Tapes. Washington e l’America sono anni luce lontani, il loro distacco crudele incarnato dai bianchi tir della Kbr, la sussidiaria della Halliburton che controlla gli approvvigionamenti in Iraq, che trae profitti astronomici dall’occupazione, e la cui sicurezza deve essere garantita dai militari. «Ovvio che questa è una guerra fatta per i soldi – sbotta Pink a un certo punto – e sarà meglio che siano tanti. Altrimenti perché? Non siamo mica i Peace Corps!».
Oltre al sergente Pink, gli altri personaggi del film sono il soldato speciale Mike Moriarty – un meccanico Harley Davidson trentasettenne, con famiglia, rimasto disoccupato, e il più in sintonia con la guerra del gruppo; ma quando è finita la sua missione a Baghdad dice che non ci tornerebbe nemmeno per mezzo milione di dollari- e il sergente Zack Bazzi – scappato dalla guerra civile libanese con la madre, è oggi studente universitario, legge The Nation ed è moderatamente critico nei confronti della Casa Bianca. I nomi del soldato Duncan Domey e del sergente Brandon Wilkins sono citati nei credits del film ma le loro storie non sono presenti nella narrativa, anche se parte del girato utilizzato è il loro. Confusione, scoramento, mancanza di obbiettivi, paura, solitudine, frustrazione, ferocia….sono alcune delle emozioni che si accavallano nel film. Spesso corredate da voice over che vanno dalle dichiarazioni bellicose/patriotttiche di Moriarty, ai riff più cinici e pensati di Pink e Bazzi (che parla bene arabo ma a un certo punto si rifiuta di continuare a tradurre agli iracheni i regolamenti inspiegabili del suo esercito), le immagini di The War Tapes sono quelle agitate, confuse, sporche, cui ci ha abituati l’ubiquità delle telecamere digitali. Echi di esplosioni improvise, il traballare di chi è coinvolto in una sparatoria, notti nero pece in cui è impossibile capire chi è dalla tua parte («credo sia la polizia irachena – dice un collega a Moriarty che gli risponde – non me ne sbatte un cazzo di chi sono, mi stavano sparando», e giù con la mitragliatrice alla cieca); o non investire una ragazzina irachena che sta attraversando la strada. Quello che sembra un mucchio informe di stracci e che è invece il suo corpo dilaniato dalla ruote degli Humvees che continuano a passare viene trascinato sul bordo della strada mentre uno dei soldati piange. Alla fine però, in tutto il casino e la disperazione, agli occhi dei soldati, è sempre «noi contro di loro». Non ci sono dubbi.
L’efficacia di queste immagini è più in quello che evocano, insieme ai commenti dei militari, che in quello che mostrano. E sono proprio delle immagini assenti, censurate, a dar origine a uno dei momenti più interessanti del film. L’ufficio pubbliche relazioni dell’esercito cui è stato sottoposto tutto il girato aveva trovato troppo forti le riprese che Pink aveva effettuato dei cadaveri di un gruppo di insorti coinvolti in un’esplosione. Così, di quei morti nel film vediamo solo qualche freeze frame. «Credo abbiano pensato che il tono delle mie riprese non fosse adatto» racconta il sergente. «Mi hanno pure sgridato perché non ho allontanato un cane che ha iniziato a mangiare uno dei cadaveri. E ho invece ripreso anche quello. Buon per lui che aveva trovato da mangiare! Cosa si aspettano da noi? Ci hanno addestrati per venire qui a uccidere. Non per altro».
Il Village Voice ha accusato The War Tapes di essere troppo indulgente nei confronti dei soldati e della loro ottusità, umana e politica. Ed è ovvio che nulla può giustificare Haditha, o My Lai. Ma, se è giusto ipotizzare che ci siano delle guerre giuste e delle guerre sbagliate, è molto meno onesto pensare che alcune siano automaticamente più «pulite» di altre. Ed è anche questo che ci ricordano Pink, Moriarty e Bazzi.