L’ Appello per la libertà di scelta previdenziale e di utilizzo del Tfr pubblicato anche su il manifesto (28 ottobre) sta avendo molte adesioni che vanno oltre l’ambito di economisti, sindacalisti, politici e addetti del settore nel quale è nato. L’obiettivo era ed è, in primo luogo, quello di richiamare l’attenzione sul fatto che, nonostante il «memorandum» concordato tra governo e parti sociali per rimandare al nuovo anno la questione previdenziale, con la finanziaria e altri provvedimenti paralleli si sta compiendo surrettiziamente un intervento in campo pensionistico di portata strutturale. Nonostante la loro rilevanza, sulle misure in atto non c’è stato un adeguato dibattito né la consultazione dei lavoratori interessati; quanto ai contenuti, essi ignorano le proposte concordate nel programma dell’Unione e addirittura anticipano l’aspetto sostanziale e più preoccupante della tanto deprecata riforma Maroni.
Il governo Berlusconi, fin dal suo insediamento nel 2001, aveva puntato ad un riequilibrio di fondo della copertura pensionistica basato sulla compressione della componente pubblica a ripartizione e sullo sviluppo di tipo sostitutivo della previdenza privata a capitalizzazione. Il tentativo era stato ostacolato sia dagli eventi economico-finanziari – che avevano ulteriormente evidenziato la pericolosità di quel progetto sul piano della sicurezza delle prestazioni – sia dall’azione di contrasto dell’opposizione politica e sociale. Tuttavia, con le misure prese nel 2004 e nel 2005, rimandandone l’applicazione al 2008, il precedente governo aveva comunque lasciato in eredità la decisione di affidare solo alla previdenza privata il compito di compensare il forte calo della copertura pensionistica atteso dopo le riforme degli anni ’90. In quei provvedimenti già si prevedeva che il risparmio previdenziale dei lavoratori dipendenti costituito dal flusso di accantonamenti per il Tfr potesse essere utilizzato solo in due modi: o lasciandolo presso le aziende per finanziare il Tfr o versandolo ai fondi pensione per finanziare il nuovo pilastro privato della previdenza. Con i provvedimenti inseriti nella finanziaria per il 2007 e gli altri approvati dal consiglio dei ministri si conferma quell’impostazione restrittiva e se ne anticipa l’applicazione.
La novità è costituita dal fatto che nelle imprese con più di 50 addetti, qualora i lavoratori non vogliano dirottare verso i fondi pensione gli accantonamenti per il Tfr, questi comunque non rimarranno nell’azienda, ma saranno trasferiti in un Fondo della Tesoreria dello Stato (l’Inps si limita alla gestione amministrativa). In tal modo, il Ministero dell’Economia conta di acquisire nuove entrate per circa 6 miliardi di euro e migliorare di altrettanto il disavanzo del bilancio pubblico ai fini del vincolo di Maastricht.
Oltre a richiamare l’attenzione su quanto accade, nell’Appello «si propone che gli attuali accantonamenti per il Tfr possano essere liberamente impiegati dai lavoratori, riconoscendo che ciascuno di essi possa suddividere il proprio salario differito, nella misura voluta, non solo tra il mantenimento del finanziamento del Tfr e l’adesione ai fondi pensione privati, ma – come era previsto nel programma dell’Unione – anche per potenziare il trattamento della previdenza pubblica», il quale rimane il canale assicurativo più sicuro e meno costoso da gestire
La necessità di un dibattito trasparente e consapevole su un aspetto di grande rilievo economico, sociale e politico, e la maggiore libertà di scelta previdenziale dei lavoratori sono dunque i due punti sui quali l’Appello richiama l’attenzione e chiede adesioni.
Naturalmente, l’Appello non manca di motivazioni economiche più specifiche; alcune di esse sono state sinteticamente accennate in una breve nota che ha accompagnato la sua diffusione. In un articolo di Cesaratto (il manifesto, 19 novembre) l’attenzione, anziché sugli obiettivi prima ricordati dell’appello, si sofferma proprio su quella nota, ma attribuendole indicazioni opposte a quelle effettive.
Infatti non è vero che in quella nota, come Cesaratto scrive: «Si propugna un uso delle risorse aggiuntive a disposizione del Tesoro per ridurre il disavanzo e non, come sarebbe auspicabile, per infrastrutture». In quella nota si legge invece: «Se, ad esempio, i lavoratori in media decidessero di dedicare la metà di quelle risorse (cioè quelle che secondo la Finanziaria potrebbero essere suddivise solo tra Tfr e i nuovi fondi a capitalizzazione) … all’incremento della loro posizione contributiva nel sistema pensionistico pubblico, i tassi di sostituzione rispetto all’ultima retribuzione (delle pensioni pubbliche) aumenterebbero mediamente di circa dieci punti percentuali. Contemporaneamente, il maggior flusso contributivo sarebbe pari a circa un punto percentuale di pil e sarebbe legittimamente valutabile nella contabilità Eurostat della riduzione del disavanzo pubblico». Il fatto che la maggiore contribuzione pensionistica, oltre ad aumentare le prestazioni, sia contabilmente «valutabile» tra le entrate del bilancio pubblico, non condiziona negativamente la possibilità di spesa, viceversa ne accresce le potenziali risorse finanziarie.
Nell’articolo di Cesaratto risultano anche impropri l’astratto richiamo a Keynes (è vero che l’investimento può generare risparmio, ma nulla toglie che quest’ultimo possa essere allocato all’estero da chi lo gestisce) e il riferimento solo parziale alle voci della bilancia dei pagamenti (tra le quali vanno considerate anche i corposi «errori ed omissioni» e la «variazione delle riserve ufficiali» che a vario titolo contribuiscono a compensare il saldo delle partite correnti). Perplessità sulle motivazioni dell’articolo di Cesaratto nascono infine dalle sue condivisibili conclusioni che mostrano di apprezzare la ratio dell’Appello, ovvero «… la proposta di destinare una quota prefissata del Tfr per estendere la previdenza pubblica, ciò che consentirebbe all’inizio anche di finanziare spese in infrastrutture». Naturalmente, il lieto fine non ci dispiace.