Le migliaia di lavoratori Telecom che hanno scioperato e manifestato qualche giorno fa a Milano e Roma, chiedevano due cose concrete. La prima: l’unità industriale del gruppo come obiettivo irrinunciabile. La seconda: un nuovo management slegato dal socio di controllo sempre più ricattato dal mercato finanziario. Per questo si tratta di azzerare le decisioni del consiglio di amministrazione Telecom dell’11 settembre.
Sono idee chiare e decisive, che “bucano” la nebbia dei fronzoli mediatici, delle polemiche politiche e indicano la necessità, non più rinviabile, di una politica industriale e del ruolo regolatore e di controllo dello Stato nei settori di interesse nazionale, a partire dalle reti. Il terreno del confronto non è tra nuove nazionalizzazioni e devastanti privatizzazioni, ma tra stabilizzazione industriale e speculazione e instabilità finanziaria. Per questo dovremo incalzare il Governo perché dica quale politica industriale vuole sostenere per il futuro del paese, iniziando dalla Telecom e dai suoi 85mila lavoratori. Se si affronta lo scenario mondiale delle telecomunicazioni è indubbio che, a causa ora della concorrenza, ora delle innovazioni tecnologiche, nei prossimi anni le vacche grasse dimagriranno, ma è anche indubbio che tutti si stanno attrezzando per quella difficile sfida, unendo in un solo contratto con l’utente il telefono fisso, il mobile, internet, servizi e tv. Telecom, su cui pesano i debiti generati da Gnutti, Colaninno e Tronchetti Provera per acquistare Telecom stessa, potrà affrontare questa convergenza strategica solo se non sarà sistematicamente prosciugata per far fronte all’indebitamento della catena di controllo.
Telecom realizza tuttora 12,5 miliardi all’anno di margine operativo lordo e 3,2 miliardi di utili: unita è una potenza (guai a considerarla un carrozzone) ed ha ancora le carte in regola per garantirsi un posto al sole con nuovi manager capaci di consolidare una missione industriale integrata. Tutta la catena di Tronchetti è superindebitata (Olimpia, Pirelli, Camfin, Gpi, Mtp & Sapa), le azioni Telecom date in garanzia alle banche valgono la metà di quando sono state acquistate, Tronchetti ha venduto tutte le aziende all’estero per 14 miliardi e ora rimane solo la Tim brasiliana e i debiti in bond con clausole capestro. A chi renderà conto del fallimento?
Il barile è raschiato, i margini e le quotazioni (fattori di garanzia) sono in diminuzione, nella sostanza tutta la catena Telecom, ma soprattutto Pirelli, è nelle mani delle banche. Chi d’oltreoceano ha messo Tronchetti al comando, sta cambiando cavallo, cercando ora di imporre la vendita di Tim all’estero. Per questo Tronchetti ha mentito al Presidente del Consiglio: semplicemente perché non poteva (e non può) dire la verità. Oggi tutto è più chiaro: la vendita della Tim, che salverebbe Tronchetti Provera, sarebbe anche l’affossamento definitivo di Telecom come società capace di affrontare il mercato mondiale. Le grandi banche italiane (le stesse che investirono 3 miliardi nella Fiat, in una situazione forse più tragica) hanno ancora un peso e una responsabilità sociale decisiva, e le fondazioni che controllano queste banche hanno un patrimonio che pesa circa 48 miliardi. In questa direzione ci pare vadano le dichiarazioni di Guzzetti (Fondazione Cariplo). E’ possibile che, di fronte al rischio della distruzione di una delle pochissime grandi industrie nazionali, non scatti, come avviene in tutti i paesi sviluppati, l’imperativo politico ed economico di evitare una grave deriva speculativa?
Ci auguriamo che Guido Rossi esprima un sufficiente grado di autonomia e che, almeno, sostituisca l’intero gruppo di comando Telecom. Nell’interesse nazionale, il progetto più chiaro e trasparente per i lavoratori, i mercati e gli azionisti (che rappresentano l’82% della Telecom, escludendo l’accoppiata Tronchetti-Benetton) è quello di separare la rete dal resto, sottoponendola al controllo e alle regole dettate dallo Stato e di fare della Telecom una holding (con meccanismi tipo golden share) che operi attraverso società che cercano sul mercato le necessarie risorse. Si finanzierebbero così, finalmente, le attività e non il debito.