Tedeschi in pensione più tardi: a 67 anni, ma dal 2029

In Germania si va adesso in pensione a 65 anni. Nei prossimi due decenni la soglia di accesso salirà gradualmente a 67 anni. Lo ha deciso venerdì il Bundestag con i voti dei democristiani e dei socialdemocratici, i due partiti di governo. Undici deputati della Spd, sensibili alle aspre critiche dei sindacati, hanno votato contro, altri quattro si sono astenuti. Contraria, in parte con opposte motivazioni, l’opposizione socialista, verde e liberale.
L’innalzamento dell’età pensionabile avverrà a piccole dosi tra il 2012 e il 2029. Nel 2012 i nati nel 1947 andranno in pensione a 65 anni e un mese. La soglia salirà di un mese per anno fino al 2023. Poi, dal 2024 al 2029, a ritmi più sostenuti di due mesi l’anno. Chi vorrà, potrà smettere di lavorare a 65 anni (o a 63, se ha versato contributi per 35 anni), ma dovrà accontentarsi di una pensione decurtata di tre decimi di punto per ogni mese che manca al raggiungimento del 67esimo anno di età. La pensione piena a 65 anni sarà accessibile solo ai pochi che hanno cumulato ben 45 anni di contributi.
Innalzare l’età pensionabile di due anni equivale a ridurre le pensioni del 7,2 per cento. Tale sarebbe la decurtazione per chi decidesse di ritirarsi dal lavoro a 65 anni (-0,3% per 24 mensilità). Il taglio colpirebbe anche chi accettasse di lavorare due anni più a lungo fino a 67 anni: a parità di aspettative di vita, godrà della pensione due anni di meno.
Per il ministro del lavoro e della previdenza, Franz Müntefering (Spd), la modifica è imposta dal progressivo squilibrio tra un numero crescente di anziani sempre più longevi e il decrescere della schiera dei lavoratori a tempo pieno regolarmente assicurati. Adesso in media la pensione viene versata agli anziani per 17 anni, sette anni in più di quanto accadeva nel 1960.
Ma se lo squilibrio è evidente, e destinato a crescere, la ricetta non può essere il ritorno a Bismarck: nel 1889, alle origini del sistema pensionistico tedesco, si andava in pensione a 70 anni. O meglio, pochissimi ci andavano, perché la maggior parte degli operai moriva prima. Chi si vedeva costretto a lasciar prima la fabbrica per motivi di salute doveva accontentarsi di modestissime pensioni di invalidità.
Il sistema non potrà stabilizzarsi se continua a attingere risorse soltanto dai contributi dei lavoratori dipendenti. Diverse alternative vengono proposte da diversi anni: un’assicurazione «di cittadinanza», sostenuta da tutti i redditi e anche dalle rendite finanziarie. O finanziata da un’imposta sul valore aggiunto dalle imprese: una «tassa sulle macchine» prenderebbe il posto della «tassa sul lavoro» rappresentata dai contributio assicurativi. Ma nessuno dei grandi partiti tedeschi, meno che meno la Cdu, ha mai considerato seriamente un cambiamento vero.
Da dieci anni a questa parte si cerca solo di «risparmiare» all’interno del quadro tradizionale. Si sono rallentati i meccanismi di rivalutazione delle pensioni, che salgono ormai molto più lentamente dei salari. Si è gia decisa la riduzione, anche questa graduale, del livello delle pensioni, che nel 2030 scenderà al 43 per cento dei guadagni medi. Adesso si mette mano mano all’ultima leva che restava per ridurre la spesa: l’innalzamento dell’età pensionabile.
Non basterà e non funzionerà. Soltanto il 45 per cento dei tedeschi tra i 55 e i 64 anni lavora. Le aziende non hanno posto per gli ultracinquantenni. E lavori pesanti, come sono la maggior parte di quelli meno qualificati, non si possono fare a 67 anni con la schiena malridotta. Andrà a finire che quel che si «risparmia» sul fronte delle pensioni di anzianità bisognerà spenderlo per una più lunga erogazione dei sussidi per i disoccupati anziani. O per pensioni di invalidità.