«Tartufo», la commedia sempre attuale del potere

Il fatto che Carlo Cecchi torni in scena con il Tartufo di Molière (dopo il successo riscosso per molte stagioni con i Sei personaggi pirandelliani) ha diversi aspetti positivi e importanti. Intanto l’omaggio affettuoso a Cesare Garboli, che di questo e di altri testi molieriani è stato traduttore appassionato e pungente. Poi il ritorno dello stesso Cecchi a un autore che ha segnato per lui vette importanti, come l’indimenticabile Misantropo moltiplicato da un universo fatto di specchi. E ancora il segnale che questo lavoro dà al lavoro futuro dell’artista, che ha preparato un progetto pluriennale col Teatro stabile delle Marche, che dello spettacolo è produttore assieme al Mercadante stabile di Napoli, (dove ha debuttato ed è in scena ancora oggi, prima di partire per Torino e Roma dove starà per tutto il resto di marzo).
Cecchi ha voluto accanto a sé, in scena, un cast di prim’ordine, che cita anche gli ultimi periodi della sua produzione. Nel ruolo del titolo c’è Valerio Binasco, ormai attore potente nella sottrazione e soprattutto nella pura «animalità» da palcoscenico: un Tartufo sfuggente e cinico, slavato e martellante, nel male che fa agli altri e nell’ipocrisia con cui lo ammanta di buoni e pii sentimenti. La impenetrabile faccia di bronzo del personaggio, febbricitante quasi di avidità, è appena solcata da un colpo di sopracciglio, o da uno sguardo sbieco. Una raffigurazione che rende il male quasi ineluttabile. Dall’altra parte un ricco universo femminile, schierato col cuore e con la ragione, e quindi perdente in partenza contro quel teatrino di maschili arroganze e poteri: la serva Dorina di Iaia Forte, maliziosa e lucida che sbatte le tovaglie in testa al pubblico; Licia Maglietta come moglie virtuosa Elmira, svagata in società ma capace di ordire lo smascheramento finale del bugiardo; Angelica Ippolito assai gustosa come Madama Pernella, suocera bigotta e credulona dai dogmi funerei, che con lei diventa un incrocio tra Bernarda Alba e Madama Pace. E poi uno stuolo di attori più giovani, da Viola Graziosi a Alessandro Baldinotti, tra gli altri. Belli i costumi di Sandra Cardini, e le musiche di Michele Dall’Ongaro che portano nel finale gli attori fino al canto.
Tutti ruotano attorno allo stesso Cecchi, che non ha bisogno di complimenti come attore e come inventore di teatro, ma che nel ruolo del credulone Orgone, capo di casa, assolve anche in scena al ruolo di capocomico. Responsabile primo quindi, e con tutto il merito, di una lettura tanto lineare e «semplice» del testo di Molière, da risultare deflagrante oggi, che molti Tartufi girano, non solo nei salotti dei creduloni, ma nella politica e nell’arena mediatica.
Cecchi non accenna né compie alcuna forzatura: gli basta la bella traduzione di Garboli, così puntuta eppure brillante. E con il suo stile inconfondibile nel far teatro, lascia che tra una risata e un gioco di parole, la commedia prenda ombre tragiche. La vicenda del Tartufo che si intrufola nella dimora del ricco borghese, ammalia lui e la vecchia madre con le sue asserzioni bigotte e viscide, fino a ottenere la mano della figlia, pretendere i favori della moglie, e addirittura arrivare tramite donazione a possedere (e voler sfrattare) la famiglia intera dalla propria casa, è paradossale ma non tanto. Tutto il resto della famiglia, dalla servitù alle parentele acquisite, prendono sottogamba i suoi eccessi di fede e di reazione, quasi ridono di quel piccolo inquisitore minaccioso come un dittatore in ascesa.
Ma come sappiamo benissimo anche noi oggi, la risata non basta a combattere il tiranno, anzi gli scontri tra i «poteri forti», per quanto famigliari, finiscono sempre per giocare a favore del regime che lui vorrebbe imporre. E il finale amarissimo è che solo un eccesso di arroganza seduttoria di Tartufo lo smaschera, quando ormai è troppo tardi per liberarsene, visto che la sua proprietà si è estesa a dismisura. L’intervento del re che ristabilisce la giustizia suona citazione del deus ex machina classico, ma produce un grande scoramento in chi si illudesse di usare anche nella politica dei rapporti sociali la ragione e il diritto. Su quella efficace scena nera di Francesco Calcagnini, che riquadra e scolora i rapporti di forza e di sentimento, non c’è da farsi troppe illusioni. Il comico Molière, e l’attore Cecchi, ci mettono in guardia, giocando con il teatro, i suoi risvolti e i suoi sipari. Ma il pericolo di cadere nelle panie di un Tartufo qualsiasi, anche se vestito di porpora o di griffate pompe papali piuttosto che da sciatto abatino come nella commedia, va spesso in onda la sera sui telegiornali.