Tartaruga dove Burri e Schifano esplosero

Plinio De Martis fu senza dubbio un personaggio fuori del comune. Nato a Giulianova nel 1920, dopo la guerra fu in rapida successione – o addirittura contemporaneamente – fotografo di talento, gestore dell’osteria “Da Plinio”, funzionario del Pci e inesauribile, vulcanico scopritore di cose d’arte e di artisti. Il nome della galleria da lui fondata – “La Tartaruga” – fu estratto a sorte fra quelli vergati su cinque bigliettini piegati e depositati sul fondo di un cappello, durante una cena con Maccari, Mafai e altri amici.
Chi volesse conoscere la storia di questo personaggio deve recarsi presso la Galleria civica di arte moderna Vittoria Colonna di Pescara. Negli spazi accoglienti di questo Museo, per la cura di Silvia Pegoraro, sarà infatti visitabile sino al 20 maggio una mostra, “L’Arte e la Tartaruga”, più unica che rara per l’originalità del tema, la qualità della selezione delle opere, l’allestimento e la scelta particolarmente felice di foto realizzate dallo stesso De Martis.
Il 25 febbraio 1954 quando, insieme alla moglie Ninnì Pirandello, Plinio De Martis, abruzzese di nascita ma cittadino del mondo per temperamento, inaugurò “La Tartaruga” siamo convinti che non immaginasse che cosa quel luogo avrebbe rappresentato, di lì a qualche anno, per l’arte italiana e internazionale.
Turcato, Mafai, Scarpitta, Leoncillo, Maccari furono fra i primi sostenitori della galleria. Burri e Afro vi esposero prima che la loro fama esplodesse e così Rotella, Dorazio, Novelli ed Ettore Colla. Gli anni Sessanta videro l’esordio di Kounellis, il quale più tardi fu conteso a De Martis dall’Attico di Sargentini. Come pure Schifano, Festa, Angeli, Pascali e Ceroli. I primi tre furono definiti da Plinio “i pittori del dolore”, nonostante i fuochi di artificio di mondanità che esplosero attorno a loro, e mai definizione fu più tristemente premonitrice. Al successo dei tre contribuì anche La Salita di Liverani. Ed in effetti le tre gallerie importanti di una Roma che allora era veramente l'”ombelico del mondo” furono la Tartaruga, La Salita e l’Attico.
Una delle prerogative del lavoro di Plinio De Martis, di cui passeggiando nelle sale della Galleria civica di Pescara si può avere una dimostrazione evidente – quasi tutti gli artisti che vi sono transitati sono rappresentati ad altissimo livello da opere esposte nella sua galleria – fu quella di non circoscrivere gli ambiti del suo interesse entro limiti nazionali. A “La Tartaruga” arrivò Duchamp ed esposero De Kooning, Raushenberg, Warhol e Twombly. Leo Castelli, il grande gallerista americano, provò a mettere le briglia al collega abruzzese, a farlo diventare un suo agente ma non sapeva di che pasta era fatto. Quando se ne accorse preferì lasciarlo stare.
Parlando dei magnifici e originali anni cinquanta e sessanta non a caso il terribile abruzzese ebbe a scrivere: «Purtroppo già negli anni sessanta, ma soprattutto nei successivi anni settanta questa originalità comincia lentamente ad inquinarsi, intorpidita e corrosa da quel processo irreversibile di americanizzazione che tra Pop e Op, Land e Body, Conceptual e Minimal ci ha colonizzati e imbarbariti, appiattendoci al rango di solerte periferia. Più americani degli americani stessi».
“La Tartaruga” fu una vetrina importante per gli americani ma mai soffrì di complessi di inferiorità. Questo faceva della Roma di allora, della cui temperatura culturale quella galleria era espressione non casuale, una realtà irripetibile. I talenti stranieri vi erano ospitati e valorizzati ma Schifano si poteva permettere di litigare con Ileana Sonnabend e Plinio De Martis con Leo Castelli. Non avevamo i soldi sicuramente, ma avevamo un’altra cosa che non nominiamo per pudore. Oggi la situazione è cambiata, sicuramente in peggio.
Ecco che cosa non mancò a Plinio De Martis: il carattere e la competenza, l’occhio lungo e l’orgoglio di difendere una identità italiana e europea che non poteva e non doveva essere svenduta. Non fu mai un mercante per questo. Fu un intellettuale, piuttosto. Vigile e critico, persino sprezzante a volte. Gli capitò di vivere e lavorare nei pressi di una piazza che non era come le altre, in una città che non era come le altre. Quella di Piazza del Popolo negli anni cinquanta e sessanta – sono ancora parole del gallerista abruzzese – «fu una densa e fertile stagione vissuta da quegli artisti che seppero assorbire lo straordinario clima della città, creando uno stile. Uno stile in bilico fra opera e comportamento, tra materia e immagine, tra impegno e nichilismo. Il loro andirivieni nella magia di questa piazza ha tessuto quella trama che oggi possiamo riconoscere come una delle esperienze più esaltanti dell’avventura moderna in Italia». Senza Plinio De Martis questa avventura sarebbe stata un’altra cosa.