TARANTO. Testimonianze dal processo contro l’Ilva

“Incarcerati” dentro la palazzina del laminatoio a freddo – più nota come “Laf” – per una settantina di impiegati di alto livello dell’Ilva di Taranto, lavorare in uno dei poli siderurgici più importanti di Europa alla fine degli anni ’90 si è trasformato in un incubo. Ancora oggi, se li incontri alle udienze per il loro processo – dove Emilio Riva è alla sbarra, accusato di “tentata violenza privata” ai danni dei propri dipendenti e di “frode processuale” – gli ex reclusi della Laf ti accolgono con uno sguardo un po’ perso: coscienti della necessità di essere lucidi – questa è forse l’unica e l’ultima occasione per ottenere giustizia – ma nel contempo provati, da anni di depressione, e infatti, esaurimenti e, per alcuni, anche tentati suicidi.
Il primo a venirmi incontro, davanti all'”aula E” del tribunale di Taranto è Giuseppe Palma, uno degli impiegati più attivi nelle azioni di rivendicazione. Ha un mucchio di carte in mano, ma quest’oggi dovrà difendersi da solo, perché il suo avvocato non può venire. Comunque è preparato: lui, nella Laf, ci è finito anzi proprio per il fatto che ha molta dimestichezza, se così si può dire, con le aule di giustizia: infatti, nel ’96 aveva aperto una causa personale nei confronti dell’Ilva, per problemi legati al rapporto di lavoro. Una causa che la dirigenza non digerito. “Verso la fine del ’97 – racconta – il mio capo mi chiamò. Mi disse che avrebbero molto gradito che mi cancellassi dal sindacato e che rinunciassi al procedimento che avevo intentato contro l’azienda. Dal sindacato, in effetti mi cancellai. E non ero il solo. Dopo il passaggio dell’Italsider a Riva, nel ’95, ci fu una netta diminuzione delle tessere sindacali: in tre anni passarono da 8-9 mila a 2 mila. La causa, però, decisi di non ritirarla. Non mi sembrava giusto. Presi 20 giorni di malattia e, al mio ritorno, mi dissero che dovevo andare alla Palazzina Laf. Il mio lavoro di tecnico informatico era soppresso per esigenze di ristrutturazione aziendale”.
Quando arrivai dentro la Palazzina, c’erano già venti persone, che erano arrivate prima di me. E infatti fui subito definito “il numero 21″. In una stanza per sei persone c’erano due vecchie scrivanie ed un tavolino, oltre a poche sedie, assolutamente insufficienti, dato che dovevamo fare a turno per sederci. Non facevamo niente per tutto il giorno. In otto ore e mezzo leggevamo il giornale, chiacchieravamo tra di noi, passeggiavamo nel corridoio. Era frustrante per noi, anche se venivamo comunque retribuiti. Avevamo avuto ruoli di responsabilità in azienda, e ora ci sentivamo perfettamente inutili”. “La palazzina Laf non era soltanto una punizione per noi – continua Palma – ma anche una minaccia per gli altri. A un mio collega fu imposto di fare 2-3 ore di straordinario al giorno senza retribuzione. Gli fu detto che altrimenti avrebbero trasferito anche lui alla palazzina Laf. Lui accettò, e cominciò a lavorare fino alle 19.00 o alle 20.00, quando il suo orario normale finiva alle 17.00. Da allora in poi sono in cura. Ho preso una depressione che non è più andata via”.
Accanto a Giuseppe Palma c’è Claudio Virtù, un altro ospite della palazzina Laf. Ha anche scritto un libro, che racconta la storia dei 70 reclusi, le umiliazioni subite in due anni: Palazzina Laf. Mobbing: la violenza del padrone (Edizioni Archita, Taranto). “Stare alla Laf mi ha rovinato – racconta – ma ha rovinato anche la mia famiglia. Molti dei nostri figli hanno dovuto rinunciare all’Università, perché ci siamo indebitati. Dopo il sequestro della Palazzina siamo finiti in cassa-integrazione e lo stipendio è stato ridotto di due terzi. In più abbiamo dovuto sostenere le spese processuali”.
“Il problema – continua Virtù – non è stato tanto la perdita del posto di lavoro, quanto la perdita del lavoro. Ci è stata tolta la dignità. I colleghi ci trattavano come appestati, a mensa non si avvicinavano a noi. Una volta, a una messa pasquale, siamo stati accompagnati da una scorta di vigilanti e tenuti isolati in una parte della chiesa. Appena è finita la funzione siamo subito stati riportati alla Laf. Insomma, ci trattavano come detenuti. E questo perché avevamo svolto attività sindacale, perché non accettavamo di essere declassati da impiegati a operai, o perché eravamo scomodi per qualche altro motivo. A volte gridavamo, cantavamo la nostra rabbia dentro la palazzina, per farci sentire da fuori”.
Ma non è bastato per commuovere i capi. Solo le denunce alla Magistratura hanno sbloccato la situazione e soltanto costretto da un sequestro dell’edificio, Riva ha dovuto chiudere la Palazzina Laf nel 1999.