Tante vite di una sola festa

Quella del Primo Maggio è una storia lunga, che più di ogni altra appartiene al mondo del lavoro e ai movimenti dei lavoratori di tutto il mondo. Ma la memoria è corta. Poco di quella storia viene ormai ricordato. Per chi è attorno alla trentina, il Primo Maggio è il giorno in cui si tiene un grande concerto davanti a San Giovanni in Laterano, a Roma. Per chi è più giovane sarà invece l’esperienza recente della milanese May Day Parade a diventare in futuro memoria condivisa. E la ironica devozione a San Precario – dell’altro santo, il servizievole Giuseppe messo in mezzo dalla Chiesa anni fa, non parliamo – prende il posto dell’antico, ormai più che affievolito omaggio ai Martiri di Chicago.
Niente di male in queste nuove vite del giorno di maggio. Il mutamento è intrinseco alla storia. Le tradizioni riescono a rimanere importanti non quando restano uguali a se stesse, ma quando cambiano, arricchendosi di nuovi protagonisti e significati. Eppure non sarebbe male riportare alla memoria collettiva anche i fili di altre storie, lontane, diverse da quelle di oggi ma rivelatrici di forse insospettate continuità.
Per esempio, l’idea di festa che si materializza nel concerto romano, il messaggio rivendicativo ma anche festoso contenuto nella Parade e l’intenzione affermativa della manifestazione sindacale ufficiale, quest’anno a Locri, sono sacrosanti aggiornamenti della ricorrenza ai nuovi contesti sociali, politici e culturali. La complessità dell’oggi legittima la plurivocità e la separatezza. Se guardiamo alle origini del Primo Maggio e alla sua storia in una prospettiva di «lunga durata» scopriamo che cambiamenti e permanenze hanno coesistito. Bisogna fare un passo indietro nel tempo.
Dando a Cesare quel che è di Cesare, torniamo agli Stati Uniti e in particolare a Chicago, dove il Primo Maggio è nato. E facciamo riferimento a una storia romanzata appena tradotta in italiano – Haymarket, Chicago, di Martin Duberman (Spartaco, pp. 412, euro 18) – e a una ricostruzione propriamente storica appena uscita in America: Death in the Haymarket di James Green (Pantheon, pp. 385).
Lo Haymarket che compare in entrambi i titoli è il piazzale del mercato dei prodotti agricoli, nel cuore di Chicago, che è associato ai fatti tragici del 4 maggio 1886 (di cui si parla qui sotto).

La storia di Albert e Lucy
Il libro di Green, storico del movimento operaio all’università del Massachusetts a Boston, è l’ultimo dei molti lavori dedicati a quegli eventi. Rispetto ai precedenti migliori, ricostruisce con pari accuratezza e con più limpida passione la storia delle lotte per la giornata lavorativa di otto ore e delle comunità operaie che di esse furono protagoniste, il quadro sociopolitico di quegli anni, i pregiudizi e la repressione e, infine, i percorsi della memoria divisa intorno alla vicenda di Haymarket. Invece quello di Duberman è un romanzo storico – non stupisca l’utilizzo di tale disusata categoria – in cui le figure di due protagonisti di quella vicenda, Albert e Lucy Parsons, sono il perno della narrazione. Romanzo storico, perché personaggi ed eventi sono reali e situazioni e atmosfere sono ricostruite con attenzione fedele dallo scrittore, storico lui stesso.
Sia Duberman, sia Green hanno le loro radici culturali e politiche nella Nuova sinistra, in quel Movimento che «uscendo dal silenzio» alla fine degli anni Cinquanta aprì la stagione dei movimenti – per i diritti civili, contro la guerra, delle donne – e andò alla riscoperta, tra le altre cose, della orgogliosa ma cancellata storia della classe operaia negli Stati Uniti.
La mattina del primo maggio 1886, sabato, fu il momento del grande sciopero per le otto ore. La tensione del corteo, concluso senza incidenti, si sciolse nei discorsi e poi nelle fanfare e nei canti e balli festosi di una folla allegra sul prato di Ogden Grove, come scrive Duberman. La domenica fu festa, e quindi musiche, danze, birra e picnic nei parchi e nei locali pubblici, in cui si fondevano le due tradizioni delle feste popolari per la primavera e della solidarietà di classe operaia. Tutti festeggiavano, americani e immigrati, separatamente e insieme. Gli aspetti rivendicativi del movimento per le otto ore e quelli con cui la nuova classe operaia industriale affermava la propria dignità erano una cosa sola.
Il momento era difficile. Dopo la terribile depressione economica del decennio precedente, era di nuovo recessione: il quaranta per cento degli operai di Chicago era disoccupato. La precarietà caratterizzava il loro rapporto con il lavoro. Tuttavia il composito ma vasto movimento per la giornata lavorativa breve aveva conquistato qualche successo parziale. Alle soglie della data fatidica, mostra Jim Green, alcuni imprenditori – birrai e inscatolatori di carni, in particolare – avevano accettato le otto ore e il sindaco della città aveva fatto lo stesso per i dipendenti comunali. Contro gli altri sarebbe continuata la lotta.
L’idea che lotta e festa, che rivendicazione e affermazione di sé in quanto classe fossero inscindibili non era presente solo negli inizi americani. Da allora in poi, dovunque poté essere celebrato, il primo maggio inglobò nella rivendicazione di una nuova vita per i lavoratori tanto la concretezza della lotta di classe, quanto il simbolismo dei rituali festivi, cristiani e non, legati al ritorno della natura alla vita. Come è noto, in tanta pubblicistica operaia italiana del primo Novecento, il Primo Maggio era anche la «Pasqua dei lavoratori» e sotto il fascismo le scampagnate portavano a luoghi dove si poteva festeggiare e cantare i canti proibiti.

Politiche della memoria
Il fatto che i percorsi delle lotte e celebrazioni attuali, quali che siano, non si concludano con tragedie come quelle del 1886 dice banalmente quanta è la strada che i lavoratori hanno fatto da allora. E segna le discontinuità rispetto al passato, incluso quello per noi relativamente recente della strage del Primo Maggio 1947 a Portella della Ginestra, in Sicilia. Ma i giovani non considerano che è anche a quel passato – conquiste e sconfitte – che si deve il loro presente, incluso un precariato che si potrebbe pure misurare su quello di cento e più anni fa. Quasi sempre non ne sanno nulla. Invece le distanze che separano San Precario dai Martiri di Chicago andrebbero continuamente ripercorse. Le May Day Parades non più solo milanesi di oggi dovrebbero interloquire con tutti i Primi Maggio del passato.
La storia è sempre da riscrivere. Diventano indispensabili libri come quello di Green, che ricostruisce gli eventi ottocenteschi e poi, però, li collega anche con la memoria e il senso politico che essi hanno avuto. La figura di Lucy Parsons, per esempio, serve a Green per legare nel filo del racconto quegli eventi con l’Iww – alla cui fondazione Lucy partecipò – a Sacco e Vanzetti, alle lotte degli anni Trenta e all’ultimo corteo del Primo Maggio cui partecipò, nel 1941, all’età di ottantotto anni. A sua volta, Duberman colloca nel contesto degli eventi le storie personali, intime dei suoi protagonisti in modi che prima del «personale è politico» sarebbero stati impensabili.

Isteria antiradicale
Torniamo ai fatti. Il lunedì 3 maggio, scrive Green, sembrava che l’atmosfera della domenica dominasse in città: le quattrocento cucitrici che scesero in sciopero «gridando, cantando e ridendo» e le altre centinaia di uomini che si unirono a loro diedero vita a un corteo «carnevalesco». Invece in periferia, alla McCormick in sciopero dalla settimana prima, l’atmosfera era tesa perché la polizia era schierata a proteggere i crumiri che l’azienda, contraria a ogni concessione, voleva introdurre in fabbrica. Quando crumiri e picchetti si scontrarono, la polizia sparò, lasciando a terra morti e feriti. E il luogo della manifestazione di protesta convocata per la sera del giorno dopo, Haymarket, avrebbe assunto il valore storico di simbolo dell’intera tragedia.
Il 4 maggio segnò anche l’inizio di una ondata di repressione senza precedenti. Fu la prima ma non l’unica nella storia statunitense. L’isteria antiradicale era appesantita dalla xenofobia. Degli otto che sarebbero stati condannati per i «fatti di Haymarket» solo due erano nati negli Stati Uniti, il texano Albert Parsons e il newyorkese Oscar Neebe (cresciuto però in Germania fino ai 14 anni); tutti gli altri erano immigrati: Fielden dall’Inghilterra e Spies, Fischer, Schwab, Engel e Lingg dalla Germania. Era l’americano e bianco Parsons, però, il più esecrabile agli occhi del potere: oltre ad avere sposato una negress, si era associato con degli immigrati tanto ingrati verso il paese ospite da essere rivoluzionari.
In realtà, nel movimento per le otto ore confluivano quasi tutte le componenti sindacali e politiche operaie, come mostra Green. Con gradi diversi di partecipazione e di consistenza numerica erano presenti i socialisti, i «socialrivoluzionari» della International Working People Association (Iwpa) di Parsons e dei suoi compagni, i cooperativisti Knights of Labor, che proprio allora superarono i 700.000 aderenti, i tradeunionisti della Federation of Organized Trade and Labor Union (Fotlu) e gli iscritti a sindacati locali. La repressione fu durissima con i rivoluzionari e i Knights of Labor. Mirò non solo a togliere di mezzo loro, pericolosi perché estremisti o perché numerosi, ma anche ad approfondire quelle divisioni tra operai specializzati e non specializzati e tra «americani» e immigrati, che organizzazioni come i Knights cercavano di cancellare. Fu indifferente alla possibilità che il movimento operaio facesse dei giustiziati i suoi martiri. Furono conti sbagliati solo in parte. Ma facciamo non più nostro quel passato e i repressori avranno avuto ragione del tutto.