Secondo Bruno Arpaia ( Per una sinistra reazionaria , ed. Guanda, da poco in libreria) la dicotomia destra/sinistra ha ancora un senso, visto che da sinistra egli guarda alla destra con invidia per alcune sue connotazioni culturali “forti”. Propone anzi di tramutare l’invidia in assimilazione: perché lasciare il meglio della destra alla destra? Facciamo nostre le sue doti migliori.
Posto che, per Arpaia come per molti altri critici dell’oggi, la sinistra che viviamo è mediocre, il liberalismo è ripugnante, la democrazia è insoddisfacente, il progressismo «è stato ridicolizzato dalla storia» (Calasso), l’individualismo è puro egoismo, la modernità è una cloaca ecc., vediamo cosa una sinistra dovrebbe apprendere a far proprio della destra. Intanto la tendenziale sostituzione del pronome io al pronome noi, per sconfiggere una volta per sempre l’individualismo. L’inviolabilità dell’individuo rispetto a ogni sovradeterminazione andrà ritenuta una vuota “mitologia del moderno”: basta con l’onnipotenza dei diritti, è ora che torniamo ai doveri. Il passo seguente è la riabilitazione a sinistra del concetto di “comunità”, ovviamente con la riattivazione forte della fraternité e la volontà di mescolanza, meticciato, contaminazione.
Ancora. Recuperare il valore della “lentezza” in un universo frenetizzato: il discorso sulla lentezza porta quindi a centralizzare il beneficio della letteratura come arte “lenta” ed il “racconto” come forma di comunicazione piena e profonda. Da lentezza e racconto il passo alla valorizzazione della “tradizione” è breve.
Non basta. La sinistra deve riconoscere nuovamente il senso del “limite”. Limite etico, ad esempio, o meglio, limite “naturale”. E poi limite allo sviluppo selvaggio e al «cieco sogno prometeico» della tecnologia: il fallimento è sotto gli occhi di tutti, argomenta Arpaia. Non basta ancora: il limite è anche la soglia imposta dal sacro, potremmo dire, e da quei “valori morali” che ogni buon profeta di sinistra, da Pasolini a Cacciari, sembrerebbe aver evocato. «Non sempre, insomma, ribellarsi è giusto».
E infine. Come sarà questa nuova sinistra? Sarà “reazionaria” nel senso di “reattiva”, reagente alla modernità, ma non conservatrice né tantomeno codina, sarà “radicale” cioè forte e con progetti solidi, ma non estremista, sarà «libertaria ma non liberale», «non progressista ma nemmeno regressista» e così via, in una serie di affermazioni e doppie negazioni a forte temperatura retorica che strutturano il discorso-manifesto delle ultime pagine del libro.
Non abbiamo spazio per discutere più approfonditamente delle “fonti” di Arpaia e dell’uso che egli ne fa, e d’altronde il suo è un pamphlet, non un saggio di scienza politologica, e noi non siamo così sapienti da fargli le pulci. Certo, ad esempio l’influenza di Alain de Benoist sul suo impianto argomentativo è evidente, ma è assente in Arpaia la discussione del pensiero della nuova destra “pagana”, anti-monoteista e anti-totalitaria, differenzialista, insomma dei caposaldi speculativi di Benoist, insieme sorprendenti e inquietanti (si veda il bel libro di Germinario, La destra degli dei , Bollati Boringhieri). Insomma, soffermiamoci sull’arida sponda di alcuni elementi essenziali.
Intanto: perché la difesa dell’inviolabilità dell’individuo deve essere tutt’uno con lo strapotere immorale del mercato? Io non credo che le due cose debbano andare di conserva, il valore dei diritti umani è un dato ineludibile, essi costituiscono un patrimonio che prescinde anche dai doveri, altrettanto fondamentali ma appartenenti a un’altra distinta sfera della socialità. Mentre il mercato è una libertà regolabile, da regolare, non un assoluto.
Ancora: il vero “limite” è quello della legge, un limite laico, mentre ogni discorso sul sacro andrà fatto in privato (non concordo con quanto ha scritto Pietro Barcellona recentemente). La sfera del sacro è pure fondamentale, ma lo è nel silenzio profondo e riflettente dell’individuo. Ogni volta che il sacro viene fatto risuonare all’esterno si appressa lo spettro della barbarie. A sinistra si deve essere coscienti del limite del sacro, non del limite che il sacro impone all’uomo. Si sia credenti o meno.
Se anche da sinistra, come fa Arpaia, si invoca la “natura” non problematizzata, si esce dal discorso razionale e si entra nell’arbitrio puro. Infatti l’atteggiamento di Arpaia nei confronti dei diritti dei gay è emblematico: «lungi da me qualunque omofobia», è l’apertura del discorso, dopo di che si arriva a concludere: «Forse non è un caso che la natura abbia voluto diversi uomini e donne, e che abbia stabilito che solo dalla loro unione possano nascere dei figli».
Ecco allora che il titolo del pamphlet suona politicamente “para-dossale”, cioè contrario alla “doxa”, all’opinione comune, al luogo comune, all’aspettativa, mentre quasi tutte le argomentazioni interne al libro sono “cata-dossali”, “en-dossali”, cioè proprio quello che ci si aspetta di sentire e che si vuole sentire. Anche a sinistra? Spererei di no.