Mario Monti, sul Corriere della Sera, rilancia la campagna per le liberalizzazioni e le privatizzazioni, anche se poi chiede al govero più cautela nell’uso dei decreti. L’ex commissario europeo e tutti coloro che credono nelle virtù magiche del mercato e del privato dovrebbero forse riflettere un poco sul fatto che nel giorno della chiusura per protesta delle farmacie, le uniche aperte erano quelle comunali che tanti vorrebbero privatizzare. Chi ha detto che il pubblico è meno efficiente e meno favorevole ai consumatori del privato e delle liberalizzazioni?
Ma nonostante i fatti la campagna continua. Il ministro dell’Economia, pochi giorni fa, in un forum su la Repubblica raccontava che sua figlia lavora in Francia con contratti rinnovati di tre in tre settimane. Ammetteva che quel rapporto di lavoro può distruggere i nervi, ma poi sosteneva che in Francia in fondo le cose vanno bene perché le leggi garantiscono regole chiare e trasparenti, anche sul piano contributivo e fiscale. Per il ministro dell’Economia, la precarietà diventa accettabile flessibilità, purché non sia lavoro nero. Sarà per questo che sul Dpef, rispetto alla Legge 30, si scrive che essa sarà sottoposta a “rivisitazione” (che vuol dire?) e non si adopera in alcun modo quella parola: “superamento”, che pure era scritta a chiare lettere nel programma dell’Unione.
A sua volta il governatore della Banca d’Italia ha di nuovo spiegato che bisogna alzare l’età pensionabile. Per lui è quasi una mania ricorrente riproporre l’allungamento del tempo di lavoro, in un paese ove gli infortuni aumentano, le condizioni lavorative peggiorano, chi lavora sul serio invecchia prima. Giustamente il presidente della Camera ha bollato come un crimine sociale l’innalzamento dell’età della pensione.
I borghesi buoni allora sono improvvisamente tornati cattivi? No, la questione è un’altra. Sicuramente la classe borghese che sta emarginando i rampanti nati negli anni ottanta e novanta, da Berlusconi in giù, ha una visione diversa della società. Essa proclama la necessità di regole forti e combatte i conflitti d’interesse. Pare quasi che qua e là riemerga una buona borghesia di stampo liberale einaudiano. Sicuramente meglio di quella sfacciata e pecoreccia che ha imperversato in questi ultimi anni. Se poi questi nuovi liberali siano davvero anche buoni, questo riguarda la loro coscienza e non noi. Il punto però è un altro: l’impianto programmatico dei borghesi buoni, per affrontare la crisi del paese, non va oltre gli orizzonti del più classico dei liberismi temperati.
L’impianto complessivo del Dpef è esemplare al riguardo. Quel documento ammette sì la necessità della lotta all’evasione fiscale, di una competitività fondata sulla qualità e sull’innovazione, di un rapporto meno aggressivo con i sindacati e i lavoratori. La parola equità, che non a caso per i liberali ha sostituito eguaglianza e giustizia, compare sovente nel testo. Ma la sostanza è quella di un programma che parte dalla necessità di tenere rigidamente fede ai dettati liberisti di Maastricht, del Patto di stabilità, e anche dei loro interpreti privati, cioè le varie agenzie di rating. Per questo su due punti cardine delle politiche sociali il Dpef è persino brutale. Dice: non illudetevi, la lotta all’evasione fiscale e agli sprechi è necessaria, ma non basta per riequilibrare i conti pubblici.
Occorrono precisi interventi sulla spesa per le pensioni, per la sanità, degli enti locali, per il pubblico impiego. La manovra di 35 miliardi di euro sarà dunque anche pagata così. Scompare ogni ipotesi di aumento della spesa sociale. Eppure se proprio si vuol guardare all’Europa, bisognerebbe ricordarsi che l’Italia spende per lo stato sociale almeno 30 miliardi di euro in meno all’anno della media europea.
Poi il governo ripropone la moderazione salariale, legandola a tassi di inflazione programmata, il 2% per il 2007, l’1,7% nel 2008, l’1,5% nel 2009, largamente inferiori all’inflazione reale. Paiono discorsi d’altri tempi quelli che quasi tutti facevano, solo poco tempo fa, sulla sindrome della quarta settimana che colpisce i lavoratori e i pensionati che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese.
In sintesi, nel nome del risanamento, si colpiscono ancora lavoratori e pensionati, anche se si promette che questa volta non saranno i soli a pagare. Questa è la vera differenza con Berlusconi, che, sfacciatamente, pretendeva che il bene dei ricchi fosse anche quello dei poveri. Oggi invece, devono pagare un po’ tutti, nel nome di quel liberismo temperato, rispetto al quale si sostiene che non vi sarebbero alternative.
Più di cinquanta economisti di valore hanno invece spiegato, in un lucido appello, che un’alternativa c’è. Essa non è la rivoluzione socialista né la messa in discussione dell’economia di mercato. Semplicemente gli economisti propongono di invertire il rapporto tra risanamento, sviluppo e giustizia sociale, costruendo obiettivi sociali e di sviluppo più giusti e adeguando ad essi il percorso del risanamento. La stabilizzazione del debito, cioè un percorso che eviti quella forma di usura di stato per cui si taglia la spesa sociale per pagare i creditori del debito pubblico, è un percorso possibile. Ma richiederebbe un governo convinto e capace di sollevare a Bruxelles una istanza sulla quale a parole in tanti si dicono d’accordo, anche se poi essa ufficialmente viene negata, e cioè che l’Europa può ben permettersi una politica economica meno brutale di quella monetarista.
Invece il governo sta sempre più subendo la pressione della Confindustria, dei poteri forti, dei centri dell’economia liberista, della grande stampa d’opinione che vogliono tornare alla politica economica degli anni Novanta. A quel 1992 tanto esaltato dal ministro dell’Economia e tanto dannoso per i lavoratori. A quella politica che ci ha consegnato tante contraddizioni e tanti nodi non risolti, ben prima dei danni di Berlusconi.
Per equilibrare questa pressione liberista è allora necessaria una pressione di segno opposto dei sindacati e dei movimenti, che rivendichi una vera svolta di politica economica.
I sindacati confederali inizialmente avevano chiesto un’altra impostazione del Dpef. Anch’essi avevano proposto di diluire nel tempo il risanamento del debito in maniera che fossero solo gli strumenti giusti, la lotta all’evasione fiscale in primo luogo, a reperire le risorse. Ora pare invece che anche il sindacato confederale sia disposto a farsi coinvolgere in una concertazione che appare caricaturale. Perché in essa non sono in discussione gli obiettivi, ma solo il modo di realizzarli. Nella sostanza non è in discussione se tagliare o no le pensioni o le spese per la sanità, ma solo a chi e dove tagliarle.
Per realizzare davvero una politica economica e sociale di svolta per il paese, più che di borghesi buoni, c’è bisogno di sindacati più cattivi.