Tagli alla cultura? L’Unione rifletta

Non ho mai nutrito grande simpatia nei confronti del presidente Ciampi, che spesso trovo retorico e indisponibile, per scelta, a salvaguardare davvero le istituzioni democratiche dagli assalti all’arma bianca compiuti da Berlusconi e soci. Tanto meno ne ho avuta qualche giorno fa, quando il capo dello Stato ha premiato l’assente Oriana Fallaci con la medaglia d’oro alla cultura, sia pur su indicazione di Letizia Moratti. Detto questo, però, ho molto apprezzato che, per la seconda volta in poche settimane, il presidente abbia colto l’occasione per ricordare al governo e al Paese che «abbiamo il dovere di sostenere e valorizzare la cultura con le risorse
necessarie». A prima vista potrebbe sembrare una frase di rito, ma non lo è, specie perché pronunciata proprio nei giorni in cui il governo, tramite una legge finanziaria vergognosa in termini assoluti, si appresta ad assestare il colpo di grazia al mondo della cultura e dello spettacolo, imponendo un taglio di 65 milioni di euro al già asfittico Fus (Fondo Unico per lo Spettacolo) e un altro di 48 milioni di euro ai fondi ordinari a disposizione del ministero per i Beni Culturali (il tutto mentre, tra gli altri disastri, sta cadendo a pezzi anche la Domus Aurea). Sortirà qualche effetto questo messaggio? Ne dubito, ma questo non gli toglie importanza, se non altro perché potrebbe funzionare da monito – e magari anche da stimolo – nei riguardi di chi si appresta a sostituire lo scomodo inquilino di Palazzo Chigi. E sì, perché non è che la “questione culturale”, al di là di qualche parola di circostanza, abbia mai scaldato i cuori della maggioranza dei dirigenti del centrosinistra, da sempre troppo occupati a ragionare di grandi scenari economici (e di equilibri da proporre alla Confindustria) per riservare qualche pensiero costruttivo alla difficile situazione in cui versano l’industria cinematografica piuttosto che il sistema museale, la produzione teatrale o l’editoria di qualità. E allora ben venga il richiamo di Ciampi, soprattutto se servirà ai leader dell’Unione per riflettere non solo sul concetto espresso dal presidente («La cultura è l’anima e la linfa vitale di un Paese»), ma anche per cogliere il nesso automatico che collega l’impoverimento culturale al degrado sociale e all’incapacità di progettare il futuro. D’altronde, anche in questo caso si tratta di scegliere tra un modello e un altro, o, se si preferisce, tra una priorità e un’altra. Per intenderci meglio conviene fare qualche esempio. Attualmente, in Italia, l’investimento di risorse pubbliche a favore della cultura è pari allo 0,2 percento del Prodotto Interno Lordo (contro lo 0,9 del “povero” Portogallo, l’1,3 della Francia e via salendo), mentre la spesa per la sola realizzazione dell’insensata ferrovia ad alta velocità nella Val di Susa
(considerata strategica e inevitabile da Fassino e Rutelli…) è pari al finanziamento del Fus per i prossimi quarantanove anni (quarantatré se il Fus rimanesse quello “storico”, ma è alquanto improbabile). Nel contempo, l’Italia è scesa all’ultimo posto nella classifica europea degli indici di lettura, la nostra produzione di film è la più bassa degli ultimi decenni, l’indebitamento dei teatri pubblici è allarmante (e certo non si è risolto con la nascita delle discutibili Fondazioni aperte ai privati), gli enti locali continuano a ridurre gli stanziamenti specifici (i soli tagli al Fus metteranno a rischio sessantamila posti di lavoro, specie quelli basati su contratti a
progetto), mancano importanti leggi di settore (quella sull’editoria libraria in primo luogo), mentre altre sono insabbiate da anni nelle commissioni parlamentari (come la nuova disciplina “di sistema” per lo spettacolo dal vivo, terrificante nelle versioni proposte dal centrodestra, ma molto positiva in quella presentata dalla nostra compagna Titti De Simone). In un contesto del genere, a dir poco preoccupante, ci si aspettava di non dover attendere le parole di Ciampi per prendere coscienza del peso di una questione per nulla secondaria, e per fortuna che il riuscito sciopero nazionale dei lavoratori dello spettacolo – realizzato lo scorso 14 ottobre – ha avuto il merito di rompere il colpevole silenzio della sinistra su questi temi e, forse, di spingere il governo a limitare a 65 milioni di euro il previsto taglio di 164 milioni di euro al Fus. Quei lavoratori, però – dagli orchestrali della Scala alle maschere dei cinema – non hanno bisogno solo di una generica solidarietà, bensì della certezza che una futura politica culturale “nostra” (e uso questo termine con molta fatica) si basi sull’effettiva consapevolezza del valore strategico di un settore che riguarda la formazione e la crescita di tutti i cittadini, non potendo essere considerato alla stregua di un qualsiasi comparto produttivo, magari pure minore. Solo che un segnale forte va dato subito, prima che ci crolli in testa anche il Colosseo…