Matevz Krivic, ex giudice della Corte costituzionale slovena, è indignato con l’Unione europea, oltre che con il suo governo: «Bruxelles è rimasta, zitta, a guardare un delitto assurdo compiuto contro i diritti umani. Solo il Consiglio d’Europa, un anno fa, ha preso posizione, con il presidente della sua Commissione per i diritti umani, Alvaro Gil-Robles. Ma le istituzioni politiche comunitarie sono state sempre zitte, indifferenti a quel che avveniva qui». Cose pesanti, avvenivano. Krivic ne racconta la storia, nella sua nascosta casa di Pirnice di sotto, minuscolo paesino a pochi chilometri da Lubjana dove vive con la moglie e diversi cani e gatti. «All’inizio della vicenda, subito dopo l’indipendenza del giugno `91, il governo agì in modo legittimo: domandò a tutti i non sloveni – erano circa 200mila, un abitante su dieci – di richiedere entro sei mesi la cittadinanza, che sarebbe stata concessa alla sola condizione di esser già residenti da almeno sei mesi e con la sola eccezione degli ufficiali della Vojska (esercito) federale jugoslava, considerati `nemici’». La più gran parte lo fece e ottenne la cittadinanza senza problemi. Altri 11mila se ne andarono dalla Slovenia di propria iniziativa.
«Ma circa 18mila restarono, senza presentare la domanda. Alcuni per motivi politici, molti per inconsapevolezza – non si erano resi conto del problema. Questi diventarono d’un tratto `stranieri’, il 26 febbraio ’92: il che era logico e tutto sommato regolare. Quel che non era affatto legale, invece, era la loro cancellazione, senza nessun atto pubblico formale – e senza avvertirli! – dall’elenco dei residenti. Essi avevano ottenuto legalmente il diritto alla residenza, che non poteva esser loro sottratto d’ufficio. Eppure il governo fece proprio questo. E non lo ha mai detto né tantomeno motivato pubblicamente, né prima né poi, neanche ora. Quei 18mila hanno scoperto di non esistere più per lo stato sloveno solo quando hanno cercato di avere un documento; oppure quando hanno dovuto rinnovare i loro contratti di lavoro. Hanno scoperto di aver perso il posto, la possibilità di cercarne un altro, la pensione, l’assicurazione malattia».
Ci sono stati casi di persone morte per l’impossibilità di pagarsi le cure e anche una decina di suicidi. A lungo non è stata nemmeno chiara la dimensione della vicenda, perché i «cancellati» – che oggi hanno formato un’associazione di cui Krivic è il rappresentante legale – erano sparsi un po’ ovunque e i loro casi dipendevano quasi sempre dalla buona volontà dei burocrati locali con cui avevano a che fare. Alcuni venivano aiutati a risolvere la faccenda, altri venivano invece invitati a regolarizzare la loro posizione nei paesi d’origine, senza badare che in Croazia, Serbia e Bosnia per anni c’è stata la guerra e tutto era sconvolto; o che magari quelle persone vivevano da una vita in Slovenia senza rapporti con la repubblica «di nascita». Spesso, a coloro che andavano a procurarsi nuovi documenti d’identità nel «loro» paese, veniva poi negato il reingresso in Slovenia.
«Nel febbraio `99 la Corte costituzionale per la prima volta emise una sentenza, definendo illegale l’operato del governo. Ma questo ha ignorato lo spirito, se non la lettera, della sentenza, rifacendo in quello stesso anno una legge che non restituiva nessun diritto a chi li aveva persi, ma solo rendeva possibile ottenere un nuovo permesso di residenza». Nel giugno 2002 venivano date le cifre ufficiali: secondo il governo, 11.500 persone avevano riottenuto lo status di residenti (ma non il riconoscimento del torto subìto); gli altri avevano avuto solo un permesso temporaneo, o niente del tutto.
«Così nell’aprile 2003 la Corte ha emesso una nuova sentenza, dichiarando illegale anche la legge del `99 e obbligando il ministero dell’interno a emanare una nuova legge e a regolare retroattivamente lo status dei cancellati. Ma il governo – di centrosinistra – di nuovo non ha voluto fare niente, tirando per le lunghe ed emanando alla fine una leggina disastrosa che lasciava tutto come stava. La destra xenofoba non ha accettato nemmeno questa e ha imposto un referendum per abrogarla (tenuto due mesi fa, con un successo della destra ma solo il 31% di partecipazione, ndr) eccitando l’opinione pubblica con una campagna di propaganda falsa e grottesca – per esempio sostenendo che i cancellati erano tutti ex militari responsabili di crimini di guerra, o che ridar loro i diritti avrebbe significato pagare miliardi di euro di risarcimenti. Tesi ridicole, se si pensa che la maggior parte dei cancellati sono in realtà dei poveracci, socialmente marginali».
Ora di nuovo è tutto fermo. Solo duemila persone hanno visto riconosciuti i loro diritti per il passato, mentre il governo non fa nulla per paura di perdere le elezioni d’ottobre – e già in giugno le europee – in un clima di nazionalismo che esso stesso ha contribuito a creare. «E sapete qual è il paradosso? Che mentre la destra xenofoba impazza e i moderati tacciono, l’unico partito che sulla carta difende i cancellati è la Lista unita dei socialdemocratici (erede del vecchio Pc sloveno): solo che proprio i leader di quel partito, il ministro dell’interno Rado Bohinc e il presidente dell’Assemblea nazionale Borut Pahor, sono stati i responsabili delle porcherie governative. Vuol dire che all’interno della Slovenia oggi le possibilità di fare giustizia sono minime. Per questo vogliamo presentare alla Ue il conto delle sue responsabilità».