«Qualcuno sta scrivendo una lettera, intendo qualche circolo, per chiedergli di ritirare le dimissioni», dice Roberto Del Bello, segretario Prc di Venezia. Le dimissioni sono ovviamente quelle del “caso” scoppiato come un fulmine a ciel sereno: le dimissioni di Paolo Cacciari, deputato non certo esponente delle minoranze ribelli, in dissenso sul decreto sull’Afghanistan. La prima grande sorpresa è proprio la sua, di Roberto Del Bello. «Non capisco. Non più tardi di due settimane fa, il direttivo della federazione di Venezia ha votato all’unanimità (due sole astensioni) un documento che recepisce la posizione del partito sulla “riduzione del danno”; l’ha votata anche Paolo. Non so cosa sia successo, che cosa lo ha portato a questa decisione. E’ una scelta sua, che rispetto. Un conflitto intimo, personale, davanti al quale non ho nulla da dire. Ma la politica ha anche altre regole. E’ chiaro: se tutto il gruppo di Rifondazione seguisse il comportamento di Paolo, beh, il governo Prodi sarebbe già a casa».
L’ombra si è allungata, scura. Non facciamo come Cacciari, ma «abbiamo però presente che il ddl sull’Afghanistan non è la nostra ultima spiaggia». Partita aperta, insomma.
Ascoltiamo via telefono le voci di Rifondazione, comitati regionali e circoli; la “ricaduta” Cacciari è ancora troppo fresca per essere valutata pienamente. Ma di sicuro ha agitato le acque già poco tranquille e portato anche una nota di drammaticità. E anche un’accelerazione di domande, tutte chiuse in una sola: che succede? Lo spiazzamento non è soltanto della base.
Il segretario del partito Franco Giordano non cela la sua sorpresa dietro il velo delle parole; a caldo, coi giornalisti, è perciò esplicito nel negare qualsiasi “antefatto”: «Nessuno lo ha obbligato a questo passo, ora spetta a lui decidere. Per me resta fermo il fatto che con il suo comportamento ha rotto il rapporto di fiducia con il partito in quanto comunità politica». Ma aggiunge, più conciliante: «La mia stima per lui è antica e immutata, spero che ci ripensi».
Non è stato “obbligato”, Cacciari: in sostanza il segretario dice che non c’è «stata nessuna durezza nel dibattito», niente del genere che possa averlo spinto alle dimissioni; e questo ha anche il significato di una rassicurazione autorevole sullo stato del partito in questo momento.
Anche Gennaro Migliore, capogruppo Prc alla Camera, non nasconde di essere stato colto di sorpresa, ma il suo sforzo è quello di sdrammatizzare, «vediamo se nelle prossime ore si potrà avere un ripensamento». E però la mossa di Cacciari non è certo solo un sasso lanciato nello stagno. E’ lo stesso Migliore a sottolinearlo: «Perché quell’attacco a Bertinotti? Quando si prendono decisioni così gravi, è proprio necessario forzare i toni dello scontro?».
Il “ripudio” di Paolo Cacciari ha dunque messo in campo anche l’esistenza di un effettivo vincolo di mandato legato alla politica del partito, al punto che un deputato, nel contrasto tra le sue convinzioni di coscienza e le posizioni della sua maggioranza, preferisce andare a casa? «Proprio no – dice il ”ribelle“ della Sinistra critica, Salvatore Cannavò, che pure invita Cacciari a non ratificare le dimissioni – Il mio unico vincolo di mandato è quello che riguarda il no alla guerra, il mandato che ci hanno dato gli elettori di Rifondazione e che intendo rispettare».
Anche un altro deputato ”dissenziente“, Alberto Burgio, sgombra il terreno dal link vincolo di mandato-dimissioni: «Massimo rispetto per la decisione di Cacciari, ma essa non sottende a nessuna questione del genere, a nessun vincolo di gruppo. Lo dice anche l’ordinamento della Camera, che prevede il voto in dissenso, proprio per preservare la centralità del Parlamento. Dico anche che Cacciari ha il diritto di essere rispettato senza essere messo di fronte a diktat di qualsiasi genere».
Il suo interrogativo di fondo va però al di là dello stesso caso Cacciari. «Possibile che non ci si renda conto di quello che c’è in giro, degli umori del partito e del nostro elettorato, sulla guerra ma anche ad esempio sul Dpef?».
Già, che c’è in giro? Al telefono c’è Tiziano Loreti, segretario della federazione di Bologna. «Sono cresciuto a pane e pacifismo, pace e guerra come valore assoluto. Capisco tutte queste sofferenze; e forse sul programma e sulle missioni militari avremmo dovuto fare le primarie, pensarci di più. Quel ddl, votarlo? Il fatto è che non possiamo permetterci di far cadere il governo. Ma voglio essere franco: se la questione del decreto non fosse legata alla questione del governo, la stragrande maggioranza di Rifondazione, almeno qui a Bologna, sarebbe per il no. E comunque è vero: l’appello che qui a Bologna è stato promosso per il ritiro dell’Italia dall’Afghanistan ha avuto un voto trasversale, al di là delle appartenenze di area. Sì, c’è in corso una discussione forte, appassionata, ma che non “spacca” il partito. Che rivela grandi sofferenze. Anch’io sono sofferente. E molto».
Altro che. Più che sofferente, sdegnato, Leonardo Masella, capogruppo Prc alla Regione Emilia Romagna. «Ma come si fa ad essere complici dei bombardieri di Usa e Israele? Due settimane fa, il Comitato regionale ha votato all’unanimità un odg che chiedeva il no alla missione in Afghanistan. Il rischio è di rovesciare radicalmente la nostra identità culturale e politica. Di distruggere la natura pacifista, non violenta del partito, il nostro identikit profondo. E a proposito di danneggiare il governo, lo danneggia più Padoa Schioppa col suo Dpef o Ferrero che non l’ha votato?».
Domande dentro Rifondazione. Come si fa a cambiare posizione sul no alla guerra “senza se e senza ma” in così poco tempo? Non sarà che realismo fa rima con cinismo? Non sarà che il governo è una cambiale in bianco? Giuseppe Quaranta, 29 anni, segretario del circolo Centro Storico di Bologna: «C’è una grande discussione nel mio circolo. E anche smarrimento. Arrivano messaggi del tipo: ma come, uno che è contro la guerra, ora si trova in difficoltà in un partito come il nostro, che ha fatto del no alla guerra il suo asse portante? E messaggi che chiedono coerenza, che parlano di contraddizione inaccettabile. Perché, si prende nota, sul tema guerra il partito è compatto, a prescindere dagli schieramenti congressuali».
Al telefono Sergio Spina, un altro segretario di circolo, il San Donato di Bologna, uno dei più grandi della città. «Io mi sono iscritto a Rifondazione dopo la guerra in Kosovo. E Rifondazione, ricordo, ha votato otto volte no contro la missione in Afghanistan. Qui al circolo c’è un forte dibattito, siamo per il No, ma il tema del governo è fondamentale, bisogna riuscire a tenere insieme le due necessità, scorciatoie non ce ne sono».
Dibattito aperto in comitato regionale, dice Nicola Fratoianni, segretario della Puglia. Fino a questo momento, non ci sono state manifestazioni di dissenso anche rispetto alla nostra posizione in Parlamento. i nostri iscritti chiedono però di capire. C’è un punto di difficoltà, di disorientamento. Ma c’è anche la percezione diffusa che, nel contesto dato, Rifondazione è riuscita a conquistare un primo elemento di discontinuità, ad aprire possibili varchi di controtendenza. Il “rischio” di stare al governo c’è, c’era, c’è sempre stato. Anche a livello di Regioni e Comuni».
Appelli per il no, posizioni di intellettuali e movimenti, dibattiti, polemiche, domande. Di tutto ciò è pieno il Prc toscano, 13 mila iscritti. Sostanzialmente, per l’Afghanistan, c’è consenso sulla mediazione, dice Nicolò Pecorini, segretario regionale. «Ma è’ difficile per tutti».