A partire dal 2002 in Europa si è creato un problema strutturale che agisce come un macigno contro ogni possibilità di recupero occupazionale e di attuazione di politiche sociali espansive. Il macigno si chiama eccedenza della bilancia dei pagamenti – nella fattispecie commerciale – tedesca. Alla fine la Germania ce l’ha fatta a rilanciare in Europa una variante molto negativa del suo classico modello di accumulazione. Nel 1990 il modello tedesco venne molto acutamente esaminato da Romano Prodi in un saggio pubapparso sulla rivista in inglese della Banca Nzionale del Lavoro. Il ruolo negativo del surplus della RFT, che allora superava il 4% del Pil, veniva messo in evidenza sia nella sua dimensione squilibrante per l’Europa che in rapporto alla struttura oligopolistica del capitalismo tedesco (Romano Prodi, «The Economic Dimensions of the New European Balances», Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review, no. 173, Giugno 1990).
Allora l’accumulazone di attivi con l’estero era dovuta principalmente al ruolo svolto dallo Sme, il sistema monetario europeo varato nel 1979 fondato su parità quasi stabili che crollo nel 1992 sotto la pressione degli squilibri nelle bilance dei pagamenti di paesi deficitari (Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo). Durante lo Sme la Germania cresceva meno degli altri grandi paesi europei, ad eccezione della Gran Bretagna, importando meno ed esportando di più. Ma la crescita tedesca era comunque i più elevata di quella odierna e quindi generatrice di un sostenuto flusso di esportazioni verso la Germania stessa. Fagocitando la Rdt, la Repubblica federale perse gli attivi con l’estero ristabilendoli solo all’inizio di questo decennio. Espandenoli però al punto che oggi le esportazioni nette tedesche sono oltre il doppio di quelle giapponesi e superano dell’80% l’export netto cinese. Immaginate che bestialità razziste circolerebbero se il 60% delle eccedenze provenissero dall’interscambio con l’Unione europea! Ma è proprio questo che succede con la Germania, su un volume però molto superiore a quello cinese. E la Germania colpisce sui settori portanti dell’economie dei paesi europei.
La ragioni della ripresa dell’export netto tedesco, che si effettua principalmente nei conronti dell’Europa ed in secondo ordine degli Usa, sono le seguenti. Il bassissimo tasso di crescita degli ultimi 14 anni ha ridotto le importazioni ma non ha implicato un abbandono da parte del capitale operante in Germania l’affievolimento dei settori industriali portanti, contarriamente a quanto è accaduto in Italia ed in Francia soprattutto dal 2000 in poi. Ne consegue che la struttura della domanda europea di beni industriali dipende ora in maniera maggiore dalla produzione tedesca rispetto a due decenni orsono. Accade quindi che la Germania ottiene un surplus anche con paesi, come l’Italia, che crescono ad un tasso uguale od inferiore a quello tedesco. Il secondo fattore riguarda la deflazione salariale in Germania grazie all’alta disoccupazione.
Persino il Financial Times ha scritto che i salari devono aumentare altrimenti la Germania trascinerà tutta l’Eurozona in una svalutazione salariale competitiva resa inevitabile dalla moneta unica. Infatti in questo caso le differenze nelle dinamiche salariali rimpiazzano le variazioni nei tassi di cambio. Comprimendo i propri salari, la Germania sta effettuando una politica neomercantilistica feroce verso il resto dell’Europa. Come riportato dallo Herald Tribune, gli industriali tedeschi stanno addirittura teorizzando lo stallo della domanda interna sostenendo che non è cosa importante purchè la Germania mantenga i settori forti esportatori. Con un’economia che non cresce e con un surplus di p arte corrente che sta superando quello degli anni Ottanta Berlino obbliga i governi degli altri paesi a scatenarsi contro i propri salariati più di quanto questi già vogliano. In Europa non esiste alcun meccanismo per bloccare le svaluatazioni competitive dei salari. Ma le implicazioni di ciò sono ben più gravi, perchè ingovernabili, dei parametri di Maastricht.