Ieri Ilaria Cuzzolin ha scritto su questa pagina un interessante pezzo sulla Nestlé, che riassume le varie importanti operazioni industriali che il colosso svizzero ha fatto in Italia. Vi è soprattutto evidenziata la diminuzione di posti di lavoro, lasciando spazio a interpretazioni negative su quanto la Nestlé, e quanto fanno normalmente altre aziende in simili casi, ha fatto.
Da quanto raccontate, l’azienda ha acquistato varie ed importanti aziende italiane (alcune in declino, con possibili previsioni di chiusura e perdita totale dei posti di lavoro), le ha pagate più di altri, le ha organizzate, integrate in un sistema vincente, ammodernate, rese produttive, facendo tanti utili loro stessi e facendoli fare, normalmente, anche a tali aziende, una volta completamente ristrutturate, premessa per un futuro di sicurezza e sviluppo. Cose che altri non erano stati capaci di fare. Mi risulta anche che in tale colosso, che fa tanti utili, retribuzioni e premi e previdenze siano di un livello molto alto, non facilmente eguagliabile da molte aziende italiane. La bravura di tutti loro viene premiata dal mercato (che non è una parolaccia, ma è ogni singolo cittadino, dal più piccolo studente al più grande presidente di banca) che riconosce il loro valore, acquistando volentieri i loro prodotti, in concorrenza con altri.
Ci guadagnano tutti: consumatori, dipendenti, dirigenti, azionisti e cittadini dove la Nestlé paga le tasse. Ed ognuno di loro è un «un mercato». È una colpa essere più bravi di altri? O è una colpa essere svizzeri? Non credo. Anche se essere svizzeri significa lavorare e crescere in una nazione vincente, che sa far funzionare bene il tutto, facendo pagare molte meno tasse ai propri cittadini ed alle loro aziende, permettendo così un maggior benessere, investimenti e crescita economica. Tutto ciò è il normale ciclo di una economia vincente, che dà benessere a tutti i cittadini: un’azienda nasce, cresce, nascono concorrenti, i migliori vincono (è la giuria popolare del mercato che li fa vincere) e gli atri chiudono, licenziano, o, nel migliore dei casi, vendono e chi acquista razionalizza produzione e personale. Non si conoscono altri modi a che l’economia cresca e con essa cresca il benessere di tutti. Ma molti, purtroppo, per soli interessi personali corporativi, frenano questo ciclo virtuoso. E chi resta senza lavoro? Finché ci sono necessità o desideri c’è lavoro.
E se l’economia è sana, altri ricominciano il ciclo con altri prodotti o servizi. Ed in modo più rapido se Stato e molte altre corporazioni non bloccano le iniziative che molti neoimprenditori realizzerebbero se non venisse loro complicata la vita. Dato però che non sempre questi cicli sono perfettamente sincronizzati, nel frattempo il «licenziato»può percepire unassegno di disoccupazione, meglio se pagato da una assicurazione privata, sulla perdita del lavoro.
E anche su questo punto varie corporazioni hanno bloccato iniziative interessanti del governo. Ma in un’economia veramente libera sono sempre più i posti di lavoro disponibili che i collaboratori pronti ad occuparli, sia per numero che per qualità. Se questo ciclo non venisse realizzato dalle Nestlè di turno, allora sì che la disoccupazione vera e stabile «scremerebbe» il reddito della nostra ancora poco liberale Italia. A scanso di inutili dietrologie: non sono svizzero e non ho interessi o amicizie con Nestlé. Solamente li invidio ed ammiro molto.