Sull’Afghanistan nessuna discontinuità

Sulla questione della posizione da tenere sulle missioni militari – e nella fattispecie quella in Afghanistan – occorre fare un po’ di chiarezza. E’ in corso su Liberazione una campagna tesa ad accreditare l’idea che: a) il compromesso sul decreto legge sarebbe buono e introdurrebbe delle discontinuità rispetto alle scelte compiute in precedenza, b) ci troveremmo in presenza della minaccia della caduta del governo; al di là del rispetto per le posizioni assunte da alcuni parlamentari di Rifondazione Comunista che si sono pronunciati per il No a quel decreto, questa scelta – se portata fino in fondo – potrebbe quindi mettere a rischio la sopravvivenza del governo. Credo sia utile replicare a queste posizioni per riportare il dibattito all’essenza della questione. In primo luogo, il decreto legge che il Consiglio dei Ministri si accinge ad approvare è un dispositivo che contiene i provvedimenti riguardanti ben 28 missioni all’estero. Ciò significa che non si è tenuto nel benché minimo conto la richiesta che da anni Rifondazione – ma non solo- avanza in occasione del rinnovo periodico delle missioni, e cioè che i provvedimenti siano tenuti separati per consentire di esprimere giudizi differenziati. Un modo per blindare il provvedimento, assai poco rispettoso “di quel metodo consensuale” che alcuni nostri compagni vantano di aver conseguito nella trattativa. Nel merito, la missione in Afghanistan rimane sostanzialmente inalterata. Il finanziamento è lo stesso, i soldati mantengono le stesse regole d’ingaggio e la tanto declamata riduzione delle truppe con il parallelo incremento del personale civile – come si evince dalle dichiarazioni rese dal Ministero della difesa- era già prevista nel quadro del ricambio fisiologico dei reparti dell’alleanza. A tale proposito, il gruppo dirigente del partito sostiene che quest’interpretazione non corrisponde al vero. Bene, se è così si chieda un’esplicita rettifica al Ministro della difesa o agli esponenti del centro sinistra con i quali si è stipulato l’accordo sul decreto. Alla fin fine l’unica vera novità sarebbe rappresentata dall’istituzione di un Osservatorio parlamentare sulle missioni all’estero. Uno strumento certamente utile ma, francamente, come si può considerarlo un segnale esplicito di discontinuità? Un osservatorio – seppure parlamentare – è per l’appunto un osservatorio. Nulla di più. Negli interventi di alcuni compagni si sottolinea che in ogni caso – rispetto alle richieste avanzate dagli alleati – è stato evitato il rischio di un incremento ulteriore di truppe e di mezzi bellici. Bene, ma questo non modifica di un centimetro l’unico dato di fatto e, cioè, che il governo di centro sinistra sceglie con questo provvedimento di ratificare la decisione, già assunta in precedenza, di mantenere in campo un dispositivo militare di supporto all’operazione bellica voluta dagli USA che – mi pare del tutto evidente – risponde a logiche che nulla hanno a che fare con la lotta al terrorismo e benché meno col mantenimento della pace.
Seconda questione: la minaccia della caduta del governo. E’ vero o non è vero che prima che gli otto senatori di RC, Verdi e PDCI dichiarassero la loro indisponibilità a votare per il decreto legge sulle missioni, l’UDC aveva già dato assicurazione che non sarebbe mancato il suo appoggio? E’ vero o non è vero che l’UDC al Senato dispone di 21 Senatori? E’ vero o non è vero che non è stata sollevata alcuna obiezione da parte del governo per l’appoggio ottenuto da una forza del centro destra? E infine, per quale motivo il governo si rifiuta di porre la fiducia sul decreto se non per poter disporre di quei 21 voti? Come si vede allo stato attuale il pericolo di una sconfitta del governo è assai remoto. Ma il punto fondamentale è un altro: il governo di centro sinistra, pressato dall’amministrazione Bush, ha preferito ottenere il sostegno di un pezzo del centro destra anziché impegnarsi per ottenere il convinto appoggio di tutta la propria coalizione. Chiedere questo punto agli otto senatori di fare un passo indietro significa volere, come dice un noto proverbio, “la botte piena e la moglie ubriaca” e vale a dire: sia il sostegno della destra che dell’intero centro sinistra.
E’ del tutto evidente che questo passaggio non può essere preso alla leggera. Il fatto che una coalizione si rompa alla prima significativa prova parlamentare è grave. I compagni, come il sottoscritto, che hanno ribadito in modo esplicito che non intendono appoggiare un provvedimento che non condividono, l’hanno ben chiaro. Per parte mia voglio aggiungere che questa posizione non discende automaticamente dalle critiche che da tempo avanzo nei confronti della maggioranza. Questa posizione non è collegata alla collocazione interna nel partito ma discende da una valutazione di merito. Si può e si deve mediare quando si è parte di un’alleanza di governo, a maggior ragione se la stessa è minacciata da uno schieramento di destra che punta alla rivincita ma esiste un limite che è dettato dall’incompatibilità di alcune scelte con la propria identità politica. La guerra non è un qualsiasi provvedimento economico o finanziario. Nel caso specifico si tratta di un’azione che mette in gioco la vita dei nostri soldati e quella di migliaia di afgani per salvaguardare gli interessi geopolitici di una grande potenza e dei suoi alleati. Sostenere la missione in Afghanistan oggi significa non solo assoggettarsi ad un vincolo che difficilmente potrà essere sciolto in futuro ma significa anche mettere una pietra tombale su elementi fondamentali della nostra proposta politica, pregiudicando seriamente l’intera futura esperienza del governo di centro sinistra. La Realpolitik non è sempre la scelta giusta. Mi si consenta un’ultima osservazione. Tutto mi sarei aspettato ma che si richiamassero i parlamentari al rispetto delle decisioni della maggioranza in tema di guerra proprio no. Vuol dire che in un colpo solo la Realpolitik finisce col cancellare non solo tratti fondamentali della nostra identità ma anche il diritto minimo – riconosciuto in qualsiasi schieramento ai propri rappresentanti istituzionali – a pronunciarsi liberamente su scelte non solo politiche ma anche di coscienza.