Sull’Afghanistan la sinistra ci prova

Vicenza? «E’ una questione amministrativa». Giulio Santagata, braccio destro prodiano e ministro «per l’attuazione del programma», farebbe bene a ripassare il testo (vedi box sotto) che dovrebbe realizzare per mandato istituzionale. Forse non è un caso però che il ministro non si spenda più di tanto sulla base vicentina. Misteriosamente infatti l’argomento servitù militari, giustamente discusso prima delle elezioni, non ha trovato posto alcuno tra le 1.339 «foglie» delle ormai mitiche 56 pagine del suo «albero del programma». Tema cancellato. Ma la svista di Santagata suona quasi grottesca se si passa all’Afghanistan: «Nulla è cambiato nel quadro internazionale e nel tipo di missione dall’ultimo voto. Abbiamo ritirato le truppe dall’Iraq quindi non vedo problemi».
Purtroppo la realtà smentisce entrambi gli auspici del dirigente prodiano. E forse è proprio la non ammissione dei problemi che alimenta a tutto campo le tensioni sorte nella maggioranza dopo il via libera di Prodi all’ampliamento della base Usa di Vicenza. Tensioni che come per i vasi comunicanti si trasmettono anche nel centrodestra, dove la linea dura di Fini («nessun soccorso al governo») viene subito smussata dal Cavaliere redivivo che lo invita a non fare «fughe in avanti», cioè a non votare contro la missione Nato a Kabul.
Il dossier afghano, a quanto pare, è stato avocato direttamente da palazzo Chigi (Prodi ma anche D’Alema), mettendo in secondo piano un sempre più in ombra Arturo Parisi. A Prodi il verde Pecoraro Scanio chiede «una proposta pacifista» mentre Franco Giordano pretende una «forte discontinuità». Gli uomini del Professore dovranno fare bene i conti in senato: dopo la defezione del «dipietrista» De Gregorio la maggioranza è appesa al voto dei sette senatori a vita e Cossiga, per ora, ha annunciato il suo no. Se non sarà diverso rispetto a luglio, il decreto annuale sarebbe convertito in legge solo grazie al voto delle destre.
Sono infatti ben 16 i senatori, dall’alto atesino Oskar Peterlini a Mauro Bulgarelli dei Verdi, che hanno dichiarato il 30 luglio scorso che non avrebbero più votato per la missione Isaf senza un ripensamento della nostra presenza in quel paese. Da allora, se possibile, la situazione si è aggravata. Già dal 21 novembre, sul manifesto, Franca Rame (Idv) e Fosco Giannini (Prc) hanno annunciato il loro no. Senza contare il dissenso pressoché certo degli stessi Bulgarelli e Peterlini oltre che di Grassi e Turigliatto (entrambi Prc). Salvo resipiscenze del governo, la maggioranza non c’è più.
In diversi dicono: «Non lo scrivere, io voterei contro ma da solo non mi va». A microfoni spenti insomma si registra una curiosa atmosfera tra i senatori pacifisti: le parole dominanti sono solitudine e paura. Dopo sfoghi quasi liberatori prevale il timore di essere soli, di finire tra le grottesche «figurine» dei cosiddetti «dissidenti» quando questo termine, semmai, si dovrebbe applicare a chi a sinistra è a favore di quella guerra. «Alle missioni militari di pace io non ci credo, si fanno senza armi e con corpi di pace ben addestrati» dice amara Heidi Giuliani, eletta in senato a ottobre per il Prc grazie alle dimissioni di Gigi Malabarba. Si avverte sulla propria pelle quando il «palazzo» separa da quello che hai sempre fatto: stare nei movimenti e lottare insieme a uomini e donne di tutti i partiti della sinistra. Sullo scranno non è più così. Ed è anche per questo che si moltiplicano i tentativi per tornare a confrontarsi. Martedì sera alla camera prima riunione dei 115 parlamentari di Prc, Pdci, Verdi e sinistra Ds contrari alle basi militari, una prova per riannodare fili mai del tutto troncati.
«Serve una riunione di maggioranza», chiedono in modo ufficiale Angelo Bonelli capogruppo dei Verdi e i parlamentari Loredana De Petris, Elettra Deiana, Giorgio Mele, Francesco Martone, Pietro Di Siena e Silvana Pisa in una lettera a tutti i capigruppo. Al di là delle dichiarazioni alcune coordinate sembrano ormai assodate: 1) per incidere sul governo bisogna evitare posizioni isolate; 2) tra il sì di Vicenza e il no a Kabul non c’è un nesso diretto né alcun intento ricattatorio; 3) il grimaldello del decreto affiancato da un altro documento come la mozione non basta più. La «discontinuità» deve essere già nel testo del governo.
Come? Le diplomazie sono al lavoro. La Nato ha chiesto all’Unione europea di farsi carico di aspetti decisivi ma inattuati per la ricostruzione dell’Afghanistan (sistema giudiziario, formazione della polizia, diritti civili, ricostruzione, agricoltura, etc.), l’Italia potrebbe impegnarsi a nome dell’Europa su questo terreno depotenziando la propria presenza militare. Sono argomenti affatto peregrini. Massimo D’Alema il 24 incontrerà a Roma Francesc Vendrell, il rappresentante speciale dell’Ue in Afghanistan. E il 26 sarà a Bruxelles per il vertice dei ministri degli Esteri su Isaf. Il problema è capire con quale posizione ci arriverà.