Sulla strada impervia del futuro costituzionalismo

Quanto più il sistema politico ha assunto tra i suoi principali obiettivi quello della riforma della costituzione, tanto più è andato sfumando il concetto di «costituzione». Il «politico» è apparso, in alcuni momenti del nostro recente passato, voler usare della costituzione e della sua forza normativa a suo piacimento. Non che le costituzioni siano corpi estranei rispetto al sistema politico, tutt’altro; ma si è assistito ad un’inversione dei ruoli e delle priorità. Il costituzionalismo dei moderni nasce con lo scopo di «limitare i sovrani», ponendosi come «norma giuridica fondamentale», imponendosi dunque al politico al quale detta le «sue» regole. La lotta per la costituzione e il movimento storico del costituzionalismo che ha combattuto per l’affermazione dei diritti civili e poi sociali, hanno agito e si sono spesi per la conquista di un limite. Una battaglia il cui esito vittorioso non era scontato e che ha attraversato tutti i maggiori tornanti della storia della modernità, dalle rivoluzioni liberali in poi. Movimenti storici reali, dunque.
E’ certo che mai il costituzionalismo è stato amato dal potere, eppure per una lunga fase della storia della civiltà è apparso che la forza della costituzione fosse in progressiva ascesa. L’estensione dei diritti, le limitazioni dei poteri, la diffusione delle sovranità dai pochi ai tanti aveva fatto ritenere ormai indiscutibile la superiorità della costituzione sulla politica, acquisito il dominio della prima sulla seconda. A ben vedere non si è trattato di un’illusione: è stata una realtà storica determinata.
Non può negarsi infatti che il punto più alto di affermazione dei diritti costituzionali e di capacità normativa delle costituzioni si è raggiunto nel dopoguerra. Ma poiché la forza normativa delle costituzioni si regge sulle gambe della storia, non può stupire che le trasformazioni e le dinamiche tumultuose degli ultimi anni abbiano mutato il contesto entro cui le nostre costituzioni continuano ad operare; rendendo necessario ripensare la costituzione, il suo concetto, il suo ruolo.

Un politico senza limiti
Che il politico abbia provato a «liberarsi» dai vincoli costituzionali, non deve sorprendere; e forse tanti ardori neo-costituenti, che hanno indotto le diverse maggioranze politiche a tentare di riscrivere ciascuna la «sua» costituzione, trova una delle sue ragioni inespresse ma profonde in questa pulsione del politico di liberarsi dal diritto costituzionale.
Ma è pur vero che alla fine si è dimostrata una battaglia persa, e la costituzione ha mostrato il suo carattere non effimero. La stagione delle «grandi riforme» costituzionali, finalizzate al superamento-abbandono delle ragioni del costituzionalismo moderno per come si sono inverate nel nostro Paese nel dopoguerra, si è conclusa con una straordinaria vittoria della Costituzione: il referendum sulla cosiddetta devolution del 25-26 giugno ha mostrato la confusione del politico e il radicamento storico della Costituzione.
Dopo il referendum costituzionale di giugno è forse giunto il tempo di affrontare con maggiore serietà la discussione sulla costituzione e le sue trasformazioni, abbandonando le prospettive di breve periodo e l’uso unicamente politico del diritto costituzionale. Ma per cambiare stile (passando da una letteratura «allegra» ad una riflessione storicamente fondata) c’è un gran bisogno di definire l’orizzonte culturale complessivo, c’è un gran bisogno di riappropriarsi della dimensione storica e materiale definita dal costituzionalismo e imposta dai testi costituzionali.
A tal fine il libro di Gianni Ferrara, La Costituzione. Dal pensiero politico alla norma giuridica (Feltrinelli, pp. 266, euro 17,00) può essere considerato prezioso. Lo studio di questo noto e impegnato costituzionalista fornisce una lettura delle vicende storiche della costituzione (ma anche del movimento che l’ha espressa) di grande forza esplicativa. Alla fine della lettura di questo testo, chi pure volesse dissentire con l’autore sulle specifiche ricostruzioni fornite o sulla visione d’insieme espressa, non potrà non riconoscere la distanza tra il «chiacchiericcio» che ha dominato il dibattito sulla costituzione di questi anni e la reale dimensione dei problemi; se non altro apparirà evidente che non si può continuare a riflettere sul tema profondo e delicatissimo della costituzione se non in base a una consapevolezza complessiva sul significato di questa parola.
Il libro di Ferrara è un’implicita e feroce messa in stato di accusa del metodo dominante nelle riflessioni sulla costituzione fondate più su «brillanti» escamotage che non sulla ricerca di nuovi orizzonti di senso per il costituzionalismo di domani.
Non nega Ferrara la crisi delle costituzioni, cerca di leggere questa crisi con gli occhiali del giurista consapevole della dimensione storica e politica. Con l’occhio rivolto al passato, dunque? Sì certo, tant’è che la storia della costituzione narrata da Ferrara ripercorre tutta la vicenda della civiltà: dal costituzionalismo degli antichi al «costituzionalismo, domani…». Ma è anche un modo – un metodo – per analizzare e cercare di comprendere le «dinamiche in atto», poggiando le proprie considerazioni sui dati reali e valutando le trasformazioni del mondo non in base ad una convinzione soggettiva, ma in chiave di interpretazione storica. .

Storicità del diritto
Il diritto inteso come strumento e prodotto storicamente determinato per regolare la condizione umana non può dunque essere compreso in astratto, ma solo in concreto in base ad un’attenta critica dell’ideologia. «Critica dell’ideologia», non mera storiografia, poiché la consapevolezza della dimensione integralmente storica del diritto deve essere accompagnata dalla consapevolezza della non neutralità delle scelte politiche. E se il diritto è una costruzione storica e politica, la costituzione rappresenta il «principio politico normativizzato» più rilevante, che condiziona l’intero ordinamento sociale.
Quanto detto spiega la doppia trama entro cui si sviluppa l’analisi di Ferrara. Il libro può essere letto come una riflessione sulla storia del concetto di costituzione. Tutte le più significative tradizioni di pensiero occidentale vengono riesaminate: dai precursori medioevali dell’idea di costituzione intesa in senso moderno, ai classici dell’illuminismo, per giungere agli autori che hanno pensato al costituzionalismo come dimensione propria degli Stati moderni. In questa prima prospettiva emerge con evidenza sia la profondità sia la drammaticità del processo storico che ha condotto il costituzionalismo a «farsi Stato». Un processo mai realizzatosi compiutamente, sempre in tensione e non assimilabile alla dimensione del potere politico.
Proprio questa rappresentazione – una lettura storica ed insieme una critica dell’ideologia, come s’è detto – permette di orientarsi nel secondo percorso cui il libro ci conduce. Nell’ultimo capitolo esplicitamente, ma in trasparenze nel corso di tutto il lavoro, Ferrara affronta e discute alcuni dei principali e più drammatici quesiti del costituzionalismo moderno, in tal modo fa emergere quella «certa idea» di costituzione che in premessa l’autore riteneva fosse suo «dovere» ed «obbligo» esplicitare. E’ la dimensione più propriamente dogmatica e ricostruttiva la seconda chiave di lettura del libro, un terreno che appare oggi alquanto scivoloso. In un tempo di crisi profonda e perdita delle certezze, che investe pienamente anche il destino della costituzione come norma giuridica «fondamentale», il rischio è quello che ogni ipotesi che ambisca a proporre riformulazioni dogmatiche poggi su basi eteree o comunque incerte. Se poi si ritiene che quello che noi viviamo sia un tempo di transizione verso un mondo diverso, dai contorni ancora incerti, cui non può semplicemente appiccicarsi l’etichetta di «globalizzato» o altre di analoga genericità, ma che deve essere compreso nel corso del suo farsi, è chiaro che ogni tentativo di fornire risposte definitive e certe sul ruolo e il concetto di costituzione entro gli ordinamenti giuridici della postmodernità appare fondarsi sul vuoto.
Allora delle due l’una: o si rinuncia del tutto ad ogni impegno ricostuttivo e ci si abbandona alla irriflessività del tempo presente, oppure ci si impegna in una faticosa ricerca di senso, che, senza la pretesa di dare risposte definitive e certe, si proponga però di enucleare le condizioni, le costanti, i valori e i percorsi che danno contenuto e sostanza all’idea di costituzione, almeno per come la storia moderna li ha fin qui espressi. Entro questa seconda prospettiva si muove il saggio di Ferrara.
«Non sappiamo quali forme assumerà il costituzionalismo nel nuovo millennio, in quali istituzioni si dispiegherà, di quali garanzie si munirà. Non spetta a noi prefigurarlo. Abbiamo cercato di dimostrare che è un prodotto storico. Sarà quindi la storia, nel suo divenire, a disegnarlo, e poi a produrlo traendo dall’esperienza concreta gli insegnamenti necessari a definirlo»: così scrive l’autore a conclusione della sua indagine. Parole che non hanno nulla di rinunciatario, non ci si arrende affatto al determinismo o al fato della storia. Ma è anzi da intendere come un richiamo all’impegno e alla coerenza personale, nonché come una indicazione per il futuro del costituzionalismo. Ferrara infatti, «traendo dall’esperienza concreta gli insegnamenti necessari», enuncia ciò che appare irrinunciabile perché si possa ancora parlare di costituzione secondo quell’accezione storicamente fondata dalla modernità. E’ la capacità di «frantumare il potere», «diffonderlo nei diritti di ciascuno e di tutti», che il diritto costituzionale ed il movimento che lo ha sorretto è riuscito a prospettare. La frantumazione (non dunque solo la divisione) del potere e la sua diffusione nei diritti possono garantire libertà ed eguaglianza.
A questo punto c’è da chiedersi se la libertà e l’eguaglianza potranno rappresentare la base materiale su cui continuare a fondare il costituzionalismo del prossimo futuro. Una ricostruzione storicamente consapevole non può dare nulla per scontato, ed anzi ben può dirsi che gli stessi concetti richiamati, che pur si pongono a fondamento dell’idea di costituzione, non hanno un univoco significato (anche la libertà e l’eguaglianza sono storicamente determinate); senza dire della tendenza politica reale a contrapporre i due termini (ma Ferrara giustamente osserva come nella prospettiva del costituzionalismo libertà ed eguaglianza non possono che essere intesi come un’endiadi). E’ per questo che la semplice indicazione di una strada da percorrere non basta, ma diventa essenziale chiedere ancora di specificare il senso delle cose: quale libertà e quale eguaglianza? Quale potere deve essere frantumato e diviso?

Un duro realismo
Non si può infine pensare al futuro del costituzionalismo se non si affrontano le altre fondamentali questioni della rappresentanza politica, della dialettica tra dinamiche sociali e potere, della distanza tra Stato e costituzione, della frantumazione e diffusione (non solo del potere e dei diritti, ma anche) delle sedi della sovranità e delle nuove forme di soggezione, della dimensione non più chiusa entro lo spazio delimitato degli Stati del diritto delle costituzioni, della insufficienza di ogni ipotesi fin qui prospettata di un costituzionalismo cosmopolitico. Domande che non possono essere eluse, almeno per chi non vuole accontentarsi di formule vuote e pensa ancora che il diritto costituzionale debba essere preso sul serio.
Ferrara nelle pieghe del suo libro alcune indicazioni, alcune ipotesi le prospetta, ma è certamente ancora lungo il percorso di ricerca. Questo libro non chiude alcun discorso, pone alcune domande, riesuma alcuni sentieri esistenti, ma che vengono spesso rimossi. Un libro da discutere, condividere o magari contestare, ma che riesce ad esprimere un’idea di costituzione storicamente fondata.
Ci si chiede spesso, di fronte a testi di questo tenore se il crudo realismo che li connota e la forte criticità che li sorregge, non finiscano per indurre il lettore ad un atteggiamento di disincantato pessimismo nei confronti del futuro del costituzionalismo. In questo caso vale ricordare quanto era solito dire Baruch Spinoza riguardo alle vicende umane: né ridere, né piangere, ma capire.