Sulla crisi e altro

Il blog ha riportato spesso le previsioni del Leap sulla crisi in corso e sui suoi sviluppi, previsti come gravi a breve termine. D’altronde, 2-3 giorni fa, il direttore (o presidente) della Fed (la Federal Reserve), contraddicendo di fatto Bush, ha ammesso che nei prossimi mesi falliranno alcune banche americane (pur se si è premurato di dire che non si tratterà dei massimi istituti finanziari) con riflessi recessivi comunque di rilievo. Se arriva a dirlo lui, si può essere certi che sono molto vicine al vero (anche se non bisogna mai giurarci sopra) le previsioni di una crisi più grave delle altre verificatesi dopo la seconda guerra mondiale.

Interessante del Leap è la previsione di decoupling (traduciamo “disaccoppiamento”) delle economie europee e asiatiche rispetto a quella predominante degli Stati Uniti. In un recente articolo su Repubblica (non ricordo, lo ammetto francamente, se di Turani o Pirani), si sosteneva che, in un processo del genere, si sarebbero verificati andamenti proprio diversi e quasi opposti tra le due aree in questione, come se Europa ed Asia potessero continuare nel loro sviluppo attuale (veramente quello europeo è già da qualche anno un “tran-tran” di tipo stagnazionista) mentre gli Usa arretrano. Il Leap fa invece un’altra previsione: la crisi americana non potrà non investire con i suoi negativi effetti l’intera economia mondiale, ma si instaurerà un processo che favorirà una progressiva autonomizzazione delle altre aree rispetto a quella statunitense.

Pur se il Leap è anch’esso, tutto sommato, invischiato in una concezione prevalentemente economicistica, le sue previsioni di fatto confermano quanto noi andiamo sostenendo dalla creazione del blog: si sta progressivamente entrando in un’epoca policentrica, in cui si accentueranno gli scontri – diciamolo in termini generici – di carattere geopolitico. Il problema non è comunque di tipo prevalentemente economico; l’economia (e le crisi che in essa cominciano ad aggravarsi) manifestano appunto (“fenomenicamente”) le correnti più “profonde” (di crescente scontro geopolitico) che stanno attraversando sempre più impetuosamente il globo. Al posto della sedicente globalizzazione mercantile (tipica sciocchezza delle correnti liberiste, ma anche di tante “sinistrorse”), si sta affermando la globalizzazione dello scontro tra formazioni particolari (che, alla faccia di tutti quelli che parlavano fino a un anno fa o poco più di fine degli Stati nazionali, sono ancora i paesi e le nazioni) nell’ambito di quella complessiva mondiale.

Se quanto detto è vero – e noi lo riteniamo ormai tale – ci sono molti dubbi che l’area europea sarà interessata da questo decoupling; verrà invece investita in pieno dall’onda d’urto proveniente dagli Usa e, almeno nel breve periodo, vedrà accentuata la sua subordinazione. Anche la Russia (la cui economia è ancora troppo centrata su gas e petrolio) e la Cina (abbastanza invischiata finanziariamente con gli Usa) verranno investite dalla crisi. Tuttavia questi paesi (credo in misura molto maggiore che non l’India) hanno effettive possibilità di mettere in moto il processo detto di decoupling (nella versione soft del Leap, non in quella de La Repubblica). In questi paesi ci saranno senz’altro crisi sociali interne, malesseri, perfino qualche rivolta; fenomeni “normali” nella misura in cui si è affermato in essi (in specie in Cina) uno sviluppo impetuoso che non potrà mai essere (per sua natura) – se non nelle stolte ideologie dei “sinistri” – una armonica avanzata generale della società, ma avverrà sempre con forti squilibri, tipici di quando ci si lancia in avanti con determinazione, dato che l’alternativa non è l’armonia bensì la massima “entropia”, la “morte termica”, cioè la stagnazione e la disgregazione del tessuto sociale.

Questi ultimi fenomeni sono non a caso, in questa fase, caratteristici dell’occidente capitalistico, quello più sviluppato (e dove si è affermata la società dei funzionari del capitale), in cui sussiste una democrazia elettoralistica, che è sempre (anche dove al posto dei tanti partiti e partitini vi sono innumerevoli lobbies, gruppi di pressione, cosche varie) espressione dei molteplici rivoli di interessi corporativi, relativi ai vari spezzoni particolari della società in quanto serbatoio di voti per i vari “gruppi” politici (partiti, lobbies ecc.); naturalmente questi ultimi ingannano sempre i loro elettori, ma continuano a catturarne i voti per la tipica vischiosità storica di “ciò che è morto o moribondo”. Salvo il fatto che, quando alla fine delle varie “kermesse” elettorali (tipo le presidenziali negli Usa), lo scontro si concentra tra due soli raggruppamenti, una enorme quota di popolazione (negli Usa appunto quasi il 50%) non va a votare; mentre invece in paesi come l’Italia – dove riesce a presentarsi perfino chi soltanto solletica la nostalgia di qualche sopravvissuto (magari con i simboli di passate stagioni di tensione ideologica) – vi è una relativamente alta percentuale di votanti, completamente sbriciolata e ineffettuale.

Data la necessità di comunque tentare la raccolta dei voti in una società sfatta e divisa in mille partizioni (per reddito, per preferenze religiose, etniche, sessuali, per età, per appartenenza a dati “mestieri” o invece sport, e infinite altre che non mi vengono nemmeno in testa), tutte le varie organizzazioni politiche (che siano due, divise in tante correnti e “mafie”, o qualche decina come da noi) non affrontano mai i problemi decisivi che riguardano un intero paese, ma cercano di “tenersi vicini ai bisogni della gente”. Da ciò deriva il carattere prevalentemente economicistico delle proposte politiche, il loro continuo riferimento ai problemi della “domanda” più che a quelli….non della “offerta”, bensì della produzione, cioè della struttura che dovrebbe assumere questa ai fini di un avanzamento dell’intero sistema-paese.

Abbiamo i neoliberisti con le “virtù” del mercato, che sono sempre quelle della smithiana “mano invisibile” coniugata in tanti modi diversi per fingere di “innovare”; abbiamo i keynesiani con le “virtù” della spesa statale quale “deus ex machina” che risolve ogni problema; abbiamo (in Italia, il paese più arretrato dell’occidente capitalistico) i finto-“marxisti”, che pensano soltanto alla lotta del lavoro contro il capitale, in definitiva risolto sempre con qualche modestissimo accrescimento dei salari, ricadendo quindi nella soluzione dei problemi via aumento della domanda (per di più solo quella di consumo, senza la minima sensibilità per il problema degli investimenti; non è un caso che quando tali correnti sono al governo, il che avviene solo nel nostro disgraziatissimo paese, si verifichi semplicemente un forte aumento della spesa pubblica di parte corrente o per sussidi a grandi industrie parassitarie; non certo, ad esempio, per investimenti in “capitale fisso sociale”).

Diverso è il caso di paesi come Russia e Cina. E’ inutile che si venga a cianciare semplicemente di statalismo accentratore. Non so bene in Russia, ma in Cina Hong-kong o anche Canton, Shanghai, ecc. non dipendono certo supinamente e passivamente da Pechino. Il problema è diverso. Si tratta di paesi dove esiste un forte decisionismo; e dove le elezioni non sono tenute per solleticare le ambizioni (alte o basse che siano, ma sempre meschine) di mille ceti, ognuno ben chiuso e gretto nel suo particolare interesse, bensì per ottenere ….si, diciamo pure senza perifrasi, un plebiscito su decisioni che riguardano l’insieme del paese, la sua crescita, la sua sempre più alta e potente collocazione nel consesso dei vari paesi del globo. La Cina – all’85-90% di nazionalità Han – è una vera nazione; la Russia no, ma sta ritrovando la sua vocazione di paese e di potenza. Non a caso, si sta rivalutando Stalin, pur se con cautela a causa di tutte le incrostazioni ideologiche che hanno ricoperto il personaggio. E viene rivalutato, correttamente, non come “comunista” (altrimenti ci sarebbe molto da obiettare), ma come grande uomo di Stato che, con il suo gruppo dirigente, ha condotto una politica di posizione delle basi oggi utili ad una ripresa di potenza del paese (pur ridotto come confini e come “zona di influenza”). Non operò, come dicono i banaloni, da “nuovo Zar” (oggi anche Putin viene così denominato). Uno Zar non avrebbe avuto in testa un processo di autentica modernizzazione industriale del paese (adesso lasciamo perdere, in sede di blog, la discussione sul perché alla fine si è prodotta una veloce e disastrosa involuzione).

Tornando a noi, stiamo attenti a non fare profezie sulla gravità della crisi. Ci sono però tutti gli ingredienti di essa; ed è probabile (mai certo) che si verifichi con effetti di gravità piuttosto rilevante. L’aspetto finanziario è però solo quello che essa ha preso in questa fase perché la finanza è certamente fondamentale nel coadiuvare strategie di potenza e di conquista (“imperiale”) di sempre più larghe “sfere d’influenza”. Finito il periodo dell’equilibrio tra i due “campi” (capitalistico e “socialistico”), che è stato, dal punto di vista del capitalismo occidentale (compreso il Giappone), un periodo “virtuoso” – avendogli consentito ritmi di sviluppo notevoli e una relativa centralizzazione del comando, e del coordinamento, del suo insieme negli Usa – ci si è avviati, dopo un primo periodo confuso in cui alcuni ingenui avevano teorizzato un mondo “tripolare” (Usa, Germania e Giappone), verso l’apertura del suddetto policentrismo, con la lotta tra potenze, la confusione e il caos crescenti che ciò comporta.

Sia chiaro: non siamo ancora in quest’epoca, ma vi siamo sempre più vicini (in termini di “tempi storici”). E’ ovvio che siano perciò cresciute notevolmente le ambizioni statunitensi di predominio globale e quindi anche le esigenze finanziarie che derivano da progetti del genere. Non a caso, le spese militari Usa (non solo quelle in senso stretto, ma tutte quelle necessarie in generale ad una difesa delle proprie sfere d’influenza) sono ancora maggiori di quelle dell’epoca del confronto con l’Urss. Quando la finanza è così “sollecitata”, prende l’abbrivo e sembra correre per conto suo creando infine la rottura dei vari circuiti monetari cui consegue poi – se il tutto continua ad aggravarsi – quella dei circuiti mercantili con la “naturale” caduta degli investimenti, con le varie perdite di capitale (invece che profitti), ecc. L’economicista è affascinato da quest’ultima fase, tanto da pensare che il capitalismo è alla fine: o arriva il crollo (per i “marxisti” scolastici) o la stagnazione (per tanti “keynesiani” altrettanto scolastici).

In realtà, si tratta della manifestazione (“più visibile”, oltre che quella certo avvertita maggiormente dalla povera popolazione ignara delle sue sorti) del crescente conflitto tra dominanti – non tanto nella forma del “conflitto di classe”, quanto invece come aspro scontro tra formazioni particolari (potenze) nell’ambito di quella mondiale – che alla fine dovrà, nel pieno dell’epoca policentrica (non credo prima di almeno una ventina d’anni), sfociare in un più esaustivo “regolamento di conti”. In passato, quest’ultimo ha preso la forma dei grandi conflitti bellici mondiali (dove il gioco era condotto però da alcune, poche, grandi potenze, raggruppatesi in due “alleanze” contrapposte). Oggi, non farei previsioni sicure al riguardo; manca troppo tempo. L’unica previsione, con alto grado di probabilità (mai certezza!), è quella del verificarsi di notevoli tragedie collettive; non più soltanto per i poveri popoli del fu terzo mondo, ma anche per i nostri così abituati alle “mollezze” di sessant’anni e più, in cui abbiamo scaricato sugli altri le nostre “magagne”.

Di fronte a tali prospettive, come reagiscono attualmente le forze politiche di questi paesi abituati alle suddette “mollezze” (ancora non fortemente intaccate)? La povertà delle idee è generale. Solo che tutti sono affascinati da ciò che si fa in campo monetario (e allora dacci sotto con gli “errori”, speculari e contrapposti, della Fed e della Banca Centrale europea); oppure, come già detto, tutti si affannano attorno ai problemi della domanda: come rinvigorire i consumi, come abbassare la pressione fiscale, presupponendo che il maggior reddito così messo a disposizione delle persone fisiche e delle imprese si traduca in maggiori consumi e investimenti. Balle! La situazione non si risolve con pure misure di carattere economico; e nemmeno con una micragnosa mentalità sindacale che non ha mai a cuore gli interessi generali, ma cerca solo di conquistare i voti della gente (delle mille partizioni sociali) per alimentare i parassiti del ceto politico. Ecco perché occorre il decisionismo (da non confondere con il banale statalismo, fonte di semplice corruzione), che sappia stringere attorno a sé i popoli (del proprio paese!). Ecco perché, se la crisi arriverà e sarà abbastanza (o molto) grave, Russia e Cina, pur colpite anch’esse, ne usciranno meglio e ci sarà anche un’accelerazione verso il policentrico confronto geopolitico, foriero di drammi ma anche aperto finalmente all’uscita da questo pantano creato dai troppo pasciuti “occidentali”.

Il discorso non finisce però qui; altre puntate saranno necessarie per ulteriori precisazioni.