Sul welfare Rifondazione porge l’altra guancia

Come Palmiro Togliatti dopo la pistolettata di Pallante, già in mattinata Fausto Bertinotti aveva alzato la mano per fermare ogni moto insurrezionale: «Sul welfare non sarà crisi di governo». L’avviso preventivo ha attenuato il patema di una giornata tra le più drammatiche nella storia di Rifondazione comunista, che ha subito ieri sul protocollo welfare una delle più secche sconfitte della sua storia, l’ennesima di questa legislatura dopo pensioni, missioni e basi militari, sicurezza, e senza contare le leggi più invocate a sinistra e rinviate sine die: l’Amato-Ferrero sulla immigrazione, la legge sulla droga, la tassazione delle rendite finanziarie.
Non solo il Prc ha seguito il monito bertinottiano e ha deciso di trangugiare il protocollo del welfare, ma ha dovuto acconciarsi a dare il via libera a un testo definitivo persino peggiore, dal punto di vista della sinistra radicale, di quello licenziato dalle parti sociali il 23 luglio scorso. Perdipiù, la narrativa politica di questi giorni fa sì che un partito sopra il 5 per cento, con decine di migliaia di iscritti e milioni di voti appaia sconfitto da un uomo solo, Lamberto Dini. Che ieri maramaldeggiava sui vinti: «Se devo giudicare dalle dichiarazioni degli esponenti del Prc, mi pare che stiano subendo una grossa sconfitta».
Difficile dar torto all’ex premier. Il capogruppo Prc al Senato Giovanni Russo Spena dice che hanno prevalso «gli infantilismi di Dini». Il ministro Paolo Ferrero spiega che «la vicenda del protocollo sul welfare rappresenta uno strappo all’interno della maggioranza». Augusto
Rocchi denuncia: «Il governo non è autonomo da Confindustria e questo pone un problema politico rilevante». Il segretario Franco Giordano traduce questo malcontento nella convocazione urgente di una segreteria e nel seguente annuncio: «A gennaio, dopo la finanziaria, è necessaria l’apertura di una nuova fase politica. Chiediamo a Prodi di mettere in cantiere una verifica politico-programmatica, da cui dipenderà ogni nostra decisione». Bertinotti, abbassato il braccio, benedice la linea: «Da militante mi attengo alle decisioni annunciate da Franco».
Nella débàcle hanno contato anche le divisioni interne al partito, testimoniate ieri da una votazione del gruppo alla Camera dove dieci deputati di varia collocazione interna (il 30 per cento dei votanti), guidati da Ramon Mantovani, hanno detto no al protocollo (ma lo voteranno in aula per disciplina). Buona parte di questi si preparano per l’anno venturo a un congresso di guerra alla linea governista. Ma il «vulnus democratico» denunciato da Giordano a fronte della decisione del governo di porre la fiducia sul welfare è in parte figlio anche del pasticcio rifondarolo in commissione Lavoro, dove i due membri Rocchi e Zipponi, entrambi esponenti della maggioranza bertinottiana, non hanno certo giocato di squadra. Il primo – in stretto contatto con Bertinotti e il capogruppo Gennaro Migliore – ha lavorato fino all’ultimo alla mediazione tra riformisti e radicali propiziata dal presidente della commissione, il comunista italiano Gianni Pagliarini, e poi travolta dalla decisione del governo di tornare al testo (quasi) originale del protocollo; il secondo, molto vicino alla Fiom, quel compromesso non lo ha mai riconosciuto. Risultato: il Prc non è riuscito a fare trincea nemmeno sul testo licenziato dalla commissione, che su lavori usuranti e contratti a termine portava a casa qualche risultato in più. E oltre al danno, la beffa: resta invece valida la novità che una parte del Pd aveva preteso a compensazione dell’accordo poi saltato: la reintroduzione del lavoro a chiamata nel commercio e nel turismo.
Cosa farà dunque in concreto il Prc a gennaio? Giordano ha smentito l’ipotesi che venga ritirata la delegazione al governo, ma oggi nel discorso alla Camera potrebbe rilanciare il proposito. L’obiettivo di Bertinotti è serrare le file sull’unità a sinistra e portare a casa il prima possibile (soprattutto, prima del referendum) l’accordo sulla riforma elettorale. Ma, di questi tempi, le disgrazie in casa Prc non arrivano sole. La Cosa rossa è, a voler essere ottimisti, un cantiere appena aperto. E il boicottaggio dei lavori è ben praticato. Nella stessa Rifondazione il fronte dei contrari guadagna consensi nell’area della maggioranza. Nel Pdci Marco Rizzo guida la fronda dei comunisti sempre. Alfonso Pecoraro Scanio non ha alcuna intenzione – legge elettorale permettendo – di rinunciare alla rendita di posizione che gli garantisce il Sole che ride. Sinistra democratica è l’unica forza determinata a trovare l’unità, ma – al di là delle dichiarazioni di rito rilasciate ieri da alcuni esponenti – il partito di Fabio Mussi ha lasciato il Prc solo sia sulle pensioni che sul welfare.
In questo quadro mancava solo l’annuncio di Silvio Berlusconi al settimanale Tempi («Il sistema spagnolo è quello che meglio si adatta all’Italia») ad aprire un altro fronte di allarme. «Il tedesco è l’unico sistema in grado di produrre un Parlamento che rispecchi democraticamente il paese», prova a tenere il punto Russo Spena. Ma il rischio che ceda anche questo argine è forte. E l’unico filo che tiene attaccato il Prc al governo è quello della riforma. Se il dialogo Veltroni-Berlusconi decolla sull’asse spagnolo, ovvero se fallisce e si va al referendum, a Rifondazione non resterebbe che rassegnarsi allo scacco matto oppure decidersi alla crisi di governo, buttando nel secchio cinque anni di strategia governista. E un anno e mezzo di governo senza successi.