Sul fisco forse erano meglio i “soviet” di Vanoni, Rumor, Piccoli e Forlani

Si discute delle tasse ma mi sembra che il dibattito non tenga molto conto dei dati forniti dal ministero delle Finanze. Molto utile, ad esempio, la tabellina che riportava la distribuzione per reddito degli oltre quaranta milioni di contribuenti italiani nel 2003. Ho recuperato il mio 740 di allora e ho riguardato attentamente la tabellina. Pazzesco, non potevo crederci! Nel 2003 appartenevo al tre e mezzo per cento dei contribuenti, e non me ne ero accorto. Non mi ero accorto che la mia condizione di pensionato e collaboratore di una cooperativa mi collocava nella fascia dei più ricchi. E meno male che non si considera il reddito familiare, perché altrimenti, sommando la pensione di mia moglie, ci saremmo inseriti nella fascia del due per cento. Per carità, abbiamo una casa, mangiamo tutti i giorni, ci vestiamo, compriamo i giornali, dei libri, qualche disco, ogni tanto una pizza, mai nessun lusso e così arriviamo senza problemi alla fine del mese. E’ la nostra concezione del benessere. Ma constatare che meglio di noi ci sia soltanto l’uno per cento del paese è un’offesa al senso del ridicolo. Il problema è che noi abbiamo sempre pagato le tasse, e tanti invece no. Basta guardare un’altra tabellina, quella che riporta i redditi medi dei lavoratori autonomi e dei professionisti. O buttare un occhio sugli attracchi di un porto turistico, sui veicoli fuoristrada… Ma che i ricchi evadessero lo si sapeva. La lotta spietata contro l’evasione è quindi una esigenza morale e politica. Va fatta in tutti i modi possibili, e, lo dico a costo di passare per giustizialista, considerando l’evasione un reato tra i più gravi.
A me pare tuttavia che si debba porre anche un’altra questione. Scartabellando fra i ritagli e navigando su internet ho recuperato alcuni dati. Nel 1973, le imposte prevedevano trentadue scaglioni e sul più alto (quello oltre 500 milioni) l’aliquota era del 72%. In quell’anno, un salario operaio non superava facilmente le centomila lire al mese, e 500 milioni (pari oggi a più di 10 miliardi di vecchie lire) erano davvero un reddito da ricchissimi. Far pagare a questi redditi aliquote alte rispettava il principio della progressività, fondamento liberale della democrazia: chi più ha più deve pagare, non con una percentuale fissa, ma appunto in modo progressivo. Passando dai “soviet democristiani” al craxismo, ricordo che nel 1986 le aliquote erano nove e l’ultima, oltre i 600 milioni, era del 62%. Un regalo ai ricchissimi era già stato fatto, rispetto a tredici anni prima: una riduzione di dieci punti su quello scaglione significava un bonus pari al salario di cinque operai. Tuttavia la tassazione su redditi ancora tanto consistenti era comunque significativa. L’ultimo regalo ai ricconi lo ha fatto il centrosinistra. Nel 1999 l’ultimo scaglione è stato fissato in circa 70 mila euro e l’aliquota terminale è stata ridotta al 45,5% (prima, oltre i 154 mila euro si pagava il 51%). Certo, il cavaliere, con una delle tante leggi ad personas (con la esse) voleva addirittura fare di più e meglio con l’aliquota al 33%, ma insomma, anche la “riforma” del centrosinistra non era male! E’ ovvio che, nel fare i raffronti, occorre considerare che 70 mila euro oggi (cioè circa 140 milioni di vecchie lire), rispetto ai 500 milioni del ’73, sono un reddito da indigente!

Penso che un ritorno ad una progressività coerente con le condizioni reali di vita di molti ricchi sia un dovere politico e morale nei confronti dei tanti, troppi poveri. E quindi che qualunque ragionamento sulla fiscalità, oltre a promuovere riduzioni per i redditi più bassi non possa prescindere da una ridefinizione degli scaglioni e da un innalzamento consistente delle aliquote sui redditi alti e altissimi. Altrimenti ridateci i soviet di Vanoni, Rumor, Piccoli e Forlani!