«Dieci giorni fa ho avuto un lungo , cordiale e approfondito colloquio con Tronchetti Provera e non mi aveva accennato a una ristrutturazione societaria così importante, così radicale e così diversa dalla strategia che lui stesso aveva proposto due anni fa. La mia reazione è stata di sorpresa». Chi pronuncia queste parole è un costernato Romano Prodi. Possiamo immaginare il colloquio. Tronchetti, impenetrabile come un giocatore di poker professionista, alla inevitabile domanda di Prodi sul ventilato scorporo di Tim, risponde: «Certo che no, per chi mi prende, presidente?».
In queste ore abbiamo sentito rimpiangere da molte parti l’affrettata e disinvolta privatizzazione di Telecom Italia, l’impresa dove era confluito l’intero sistema telefonico nazionale. In effetti la vendita, molto criticabile, era almeno il coronamento di una strategia di cessione di industrie e banche voluta da Ciampi, ministro del Tesoro, per mettere in moto la riduzione del debito pubblico italiano. Partita male, la privatizzazione si è avvitata su se stessa; e prima Roberto Colaninno con i suoi compari; poi Tronchetti Provera con i suoi, hanno preso e ripreso il controllo di Telecom Italia, utilizzando capitale a prestito e indebitando le società del gruppo. Un meccanismo finanziario di cui in Italia si legge di solito sui giornali, avveniva da noi, senza obiezioni di sorta, senza che alcun potere notasse che il fulmine colpiva due volte lo stesso albero. La stranezza italiana era ancora più strana. Il controllo sulla società in palio era esercitato tramite una serie di scatole cinesi; e se le scatole erano praticamente vuote, a tutti i livelli vi erano però soci e interessi ben concreti.
La prima operazione è stata fatta utilizzando quel che rimaneva vivo della Olivetti, una gloriosa impresa privata italiana. La seconda, quella di Tronchetti, servendosi invece di una società ben viva, la Pirelli, un’altra impresa privata coinvolta e impoverita nelle vicende finanziarie delle tlc. Ora, potrebbe concludersi la vendita, a pezzi, delle varie parti di quello che fu il secondo gruppo manifatturiero italiano. Un bel successo per il capitalismo del nostro paese.
I sindacati temono per l’occupazione se Tim dovesse essere scorporata. Da essi ci attendiamo qualcosa di più. Ne va della loro stessa ragione di essere; non possono accettare che una dopo l’altra le imprese spariscano per tenere a livelli accettabili i dividendi degli azionisti. Perfino la Fiat che non è un gran modello di generosità, ha saputo agire diversamente. Ha insistito sul lavoro principale: fare automobili, senza rincorrere strade più facili o accordi che avrebbero avvantaggiato soprattutto o soltanto la famiglia proprietaria.
Pirelli-Telecom invece ondeggia tra una soluzione e l’altra; come osserva Prodi, solo due anni fa aveva mosso in tutt’altra direzione; ora forse si dedicherà ai film di Fox, per poi, alla prima occasione, cambiare ancora. Purché il governo non decida finalmente di porvi rimedio. Dopo quattro mesi di luna-di-miele, siamo infatti di fronte al primo serio scontro tra governo e industriali.
Telecom di recente ha anche mostrato un’altra dimensione preoccupante. I controlli sui telefoni della repubblica di cui si è parlato spesso negli ultimi mesi, sono tutti all’interno dei suoi apparati. Finora, con qualche ingenuità – forse – ci si era fidati di Telecom, già Stet, già Telefoni di stato. Ora anche su questo bisognerebbe riflettere bene, affidando il compito non proprio al governo, ma a un’autorità terza e affidabile.