Mbeki al terzo mandato?
In vista delle elezioni politiche del 2009 si intensifica la lotta per la successione alla presidenza dell’African National Congress (ANC) e, di fatto, del paese. Una lotta che sembra polarizzata attorno a due vertici: da un lato l’attuale Presidente Thabo Mbeki, virtualmente escluso dalla massima carica dello Stato in presenza di una Costituzione che gli preclude il suo terzo mandato; dall’altro l’ex vice-presidente e suo delfino Jacob Zuma, candidato naturale alla successione e forte dell’appoggio dei sindacati, ma al centro di diversi scandali che lo hanno costretto alle dimissioni dalla sua carica, senza tuttavia essere intaccata la sua grande popolarità all’interno del partito.
Alla fine del 2006 si è tuttavia prospettato un nuovo scenario, dopo che la regione di Eastern Cape, sotto la guida del collaboratore Stone Sizani, ha approvato una mozione di appoggio a Thabo Mbeki per un terzo mandato alla guida del partito. Ed è proprio il dibattito relativo al ruolo del presidente di partito uno dei nodi del Congresso dell’ANC di fine giugno. Se Mbeki non può infatti aspirare alla presidenza dello Stato, può tuttavia candidarsi per un terzo mandato alla guida del partito, come del resto da lui stesso recentemente ventilato, rompendo quello storico binomio capo ANC – capo di Stato che caratterizza la storia sudafricana dai tempi di Mandela. Aspra la critica dell’opposizione, con la COSATU che ha definito l’attuale situazione uno “slittamento del governo Mbeki verso la dittatura”, mentre il Mail & Guardian si è ripetutamente espresso in termini di vera e propria “anarchia” che sta ormai dilaniando il partito al potere.
La triplice alleanza ANC – SACP – COSATU
L’elevato tasso di povertà e i profondi divari sociali che ancora perdurano dall’apartheid sono chiari indici di come la società sudafricana continui a rimanere fortemente polarizzata, caratterizzata da un potere economico concentrato nelle mani della minoranza bianca o dell’emergente elite politico-dirigente nera, mentre le grandi masse della popolazione di colore continuano a vivere nella miseria. Sono molti i motivi di delusione verso l’African National Congress (ANC) guidato da Thabo Mbeki, prima fra tutti l’impronta neoliberista perseguita, in campo economico, dal delfino di Mandela, che ha inevitabilmente portato allo scontento della popolazione e all’indebolimento della triplice alleanza ANC – SACP – COSATU, soggetti politici che, sebbene distanti a livello ideologico, sono legati fin dalle prime elezioni a suffraggio universale del 1994.
L’ANC presentò liste comuni con il Partito comunista sudafricano (SACP) e con la confederazione sindacale COSATU (Congress of South African Trade Unions) nel 1994, quando la coalizione guidata da Mandela riuscì ad ottenere il 62,6% dei voti. Ad oggi la triplice alleanza non si è mai sciolta, ottenendo anche migliori risultati nelle elezioni del 1999 e del 2004, ma non sono tuttavia mancate polemiche e difficoltà a partire dal 2001, quando l’ANC ha adottato una politica economica di stampo liberale. E’ proprio a partire dal 2001 che la confederazione dei sindacati ha dato il via ad una vera e propria campagna contro le privatizzazioni, con un primo sciopero generale in opposizione alla coalizione governativa, di cui la COSATU stessa fa parte. Critiche in particolare sono state avanzate nei confronti del programma GEAR (Growth, Employment and Redistribution) , che ha portato ad una veloce privatizzazione delle imprese di Stato attraverso una loro concentrazione nelle mani di pochi, non riuscendo ad assicurare la rappresentanza delle diverse componenti della popolazione nera a tutti i livelli della società. Nonostante gli attriti sempre più marcati, l’ANC ha confermato alle amministrative del 2006 oltre il 66% dei consensi: è proprio questa la maggiore forza del partito di Mbeki, la presenza di un sostegno popolare tanto ampio da renderlo praticamente inattaccabile, impedendo di fatto agli alleati minori di sganciarsi per evitare la totale esclusione dal già limitato potere di cui godono. Si deve tuttavia sottolineare la crescente forza della società civile e dei movimenti sociali, passati dalla semplice contestazione dei fallimenti governativi ad una vera e propria attività politica proprio nel corso delle amministrative 2006. Il loro obiettivo può essere sintetizzato nella proposta di una piattaforma politica in grado di soddisfare le classi sociali più deboli ed a lungo emarginate dal potere centrale, attraverso l’adozione di politiche sociali ad ampio raggio.
Sciopero ad oltranza
L’elevata percentuale di popolazione sotto la soglia di povertà (circa il 50%, ossia 22 milioni di persone) e la disoccupazione ufficiale oltre il 40% (dato che peraltro non tiene in debita considerazione il vasto fenomeno della sottoccupazione) sono i principali canali di accusa della COSATU al modello di sviluppo economico liberale adottato dal governo e basato sulla privatizzazione dei servizi (esemplare il caso di acqua ed elettricità), grazie al sostegno e al plauso di Fondo Monetario Internazionale e Banca Mondiale. Il tutto accompagnato dal degrado sociale e dall’elevatissima incidenza dell’HIV/AIDS: è questo il contesto che fa da sfondo al recente sciopero ad oltranza organizzato, a partire dai primi giorni di giugno, dalla COSATU, che già aveva criticato apertamente la forte impronta neoliberista del GEAR ed organizzato contestazioni più o meno marcate a partire dal 1998. Inoltre, negli ultimi due anni, circa mille proteste hanno incrinato il labile rapporto tra il governo e gli abitanti delle zone rurali più emarginate e disagiate, di cui la rivolta armata di Khutsong nel 2006, sedata solo grazie all’invio di circa 20 mila agenti delle Forze di Polizia, ne è divenuta simbolo.
Lo sciopero generale, indetto il primo giugno e terminato solo dopo 28 giorni di marce e picchetti, si basava sulla richiesta dei dipendenti pubblici ad ottenere aumenti salariali fino al 12%, a fronte di un’inflazione che sfiora il 7%. I manifestanti hanno accusato il governo di non operare, così come promesso, per una trasformazione economica in favore delle classi lavoratrici e dei milioni di poveri. La protesta, che ha visto l’adesione di gran parte del settore pubblico contro le numerose disfunzioni del governo e delle amministrazioni locali in particolare, ha portato le parti in lotta ad accordarsi su un aumento salariale del 7,5%.
Conclusioni
Se la candidatura di Thabo Mbeki richiederebbe una modifica della Costituzione, prassi che sembra ormai in voga in diversi paesi africani, l’esclusione di Jacob Zuma ha messo in seria crisi i sindacati del paese, che avevano visto in lui il candidato ideale della classe lavoratrice.
Nonostante la vasta partecipazione e la manifestazione della presa popolare della confederazione, lo sciopero di giugno ha rivelato ancora una volta le numerose contraddizioni sudafricane. Le sue conseguenze, in presenza di un sistema largamente privatizzato, sono infatti pesate proprio su quei cittadini più poveri che rappresentano la base sociale stessa dello sciopero, privati per quasi un mese dei servizi essenziali, in particolare del settore sanitario, mentre le catene di distribuzione e le cliniche private hanno continuato a funzionare.
Se tuttavia è vero che il potere di acquisto dei lavoratori si è ridotto negli ultimi anni, soprattutto a causa dell’aumento del prezzo del petrolio, la crisi sindacale rischia ora di essere strumentalizzata dal Congresso dei sindacati sudafricani nell’ambito della lotta per la successione alla Presidenza Mbeki, con una probabile escalation delle proteste in vista della conferenza di dicembre, dove verrà eletto il nuovo leader dell’ANC.
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