SUD CHIAMA EUROPA

Contro il nuovo ordine americano

Oggi la solidarietà dei paesi del Sud – che si espresse con forza a Bandung (1955) e a Cancun (1981) sul piano politico (non allineamento) e su quello economico (posizioni comuni adottate dal Gruppo dei 77 nelle istituzioni dell’Onu, in particolare nell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) – sembra non esistere più. L’integrazione dei paesi del Sud, gestita dalle tre istituzioni internazionali che avrebbero dovuto curarne gli interessi (il Wto, la Banca mondiale e il Fmi), è in gran parte responsabile dell’indebolimento dei 77, della Tricontinentale (che non esiste più) e del Movimento dei non allineati (che tuttavia sta dando segni di una possibile ripresa). La causa di questa situazione va ricercata nell’aggravarsi delle disuguaglianze di sviluppo nel Gruppo dei 77, con la presenza, da un lato, di paesi in via di una consistente industrializzazione – che hanno scelto di operare sul mercato mondiale in concorrenza con i paesi della triade (Stati Uniti, Europa e Giappone) e del Sud – e, dall’altro, dei paesi ormai definiti del Quarto Mondo.
I paesi del Sud sembrano non avere più gli stessi interessi da difendere collettivamente. Tuttavia questa considerazione è vera solo se si considera il breve periodo e se si tiene conto unicamente delle condizioni immediate alla base dei `vantaggi’ che si possono ottenere – o si crede di poter ottenere – dalla globalizzazione liberale. La situazione è molto diversa sul lungo periodo, poiché il capitalismo realmente esistente non ha molto da offrire né alle classi popolari del Sud né alle stesse nazioni, impedendo di fatto il `recupero’, cioè la loro affermazione come partner paritari dei centri (la triade) nell’organizzazione del sistema mondiale.
Ma, ancora una volta, è attraverso la politica che si avvia la presa di coscienza dell’esigenza di solidarietà dei paesi del Sud. L’arroganza degli Stati Uniti e il lancio del loro progetto di `controllo militare del pianeta’, con l’organizzazione continua di guerre `made in Usa’, pianificate e decise unilateralmente da Washington, sono all’origine della forte presa di posizione del recente vertice dei non allineati (Kuala Lumpur, febbraio 2003).
1. Uno sguardo sul passato:
l’epoca di Bandung (1955-1981) Nel 1955 i principali capi di Stato dei paesi asiatici e africani, dopo aver riconquistato la loro indipendenza politica, si riunivano per la prima volta a Bandung.
I leader asiatici e africani erano tutt’altro che uguali. Le correnti politiche e ideologiche che rappresentavano, la loro visione del futuro della società da costruire e dei rapporti con l’Occidente costituivano tutti argomenti di grande divergenza. Tuttavia un progetto comune li univa e dava un senso alla loro riunione. Nel loro programma comune figurava la realizzazione della decolonizzazione politica dell’Asia e dell’Africa. Inoltre tutti ritenevano che l’indipendenza politica riconquistata dovesse rappresentare solo un mezzo per raggiungere il fine, rappresentato dalla conquista della liberazione economica, sociale e culturale.
Al di là delle differenze i non allineati pensavano che l’edificazione di un’economia e di una società sviluppata indipendente (anche se nell’ambito di un’interdipendenza globale) implicasse un certo livello di `conflittualità’ con l’Occidente dominante (l’ala più radicale riteneva necessario mettere fine al controllo dell’economia nazionale da parte del capitale dei monopoli stranieri).
Questi paesi, preoccupati di preservare l’indipendenza riconquistata, rifiutavano di entrare nel gioco militare mondiale e di servire da base all’accerchiamento dei paesi socialisti che l’egemonismo americano cercava di imporre. Erano convinti che rifiutare l’inserimento nello schieramento militare atlantico non comportasse di fatto la necessità di mettersi sotto la protezione del suo avversario, cioè dell’Unione sovietica. Da ciò il `neutralismo’, il `non allineamento’, definizione del gruppo e dell’organizzazione che sarebbe uscita dalla conferenza di Bandung.
Di vertice in vertice, nel corso degli anni sessanta e settanta, il `non allineamento’ riunì la quasi totalità dei paesi dell’Asia, dell’Africa, oltre a Cuba, passando progressivamente dal carattere di un fronte di solidarietà politica con le lotte di liberazione e di rifiuto dei patti militari, a quello di un `cartello di rivendicazioni economiche nei confronti del Nord’. In questo contesto i non allineati si sarebbero alleati con i popoli se non proprio con gli Stati dell’America Latina, che non hanno mai aderito alla Tricontinentale. Il gruppo dei 77 (l’insieme del Terzo Mondo) traduceva questa nuova larga alleanza del Sud. La battaglia per un `nuovo ordine economico internazionale’, avviata nel 1975, dopo la guerra del Kippur, dell’ottobre 1973, e la revisione dei prezzi del petrolio, ha rappresentato al tempo stesso il momento più significativo di questa evoluzione e la sua fine, ufficializzata a Cancun (1981) con il diktat di Reagan e dei suoi alleati europei.
L’economia politica del non allineamento, per quanto spesso implicita e vaga, può essere così sintetizzata:
– la volontà di sviluppare le forze produttive, di diversificare le produzioni (in particolare di industrializzare); – la volontà di assicurare allo Stato nazionale la direzione e il controllo del processo; – la convinzione che i modelli `tecnici’ costituiscono dei dati `neutrali’ che si possono soltanto riprodurre sia pure mantenendone il controllo; – la convinzione che il processo non ha bisogno innanzi tutto dell’iniziativa popolare ma solo del sostegno popolare agli interventi dello stato; – la convinzione che il processo non è fondamentalmente contraddittorio con la partecipazione agli scambi nel sistema capitalistico mondiale, anche se può provocare dei conflitti momentanei con quest’ultimo.
L’espansione capitalistica degli anni 1955-70 ha facilitato i successi di questo progetto. Tuttavia questo periodo della storia del non allineamento sembra essersi definitivamente chiuso, quando il sistema globale – a partire dal 1980 – è entrato in una fase di ridefinizione basato su una nuova globalizzazione neoliberale. Ma è realmente così? Di fatto le resistenze alla globalizzazione si rafforzano ovunque nel mondo, tanto nel Nord quanto nel Sud. In questo contesto è lecito immaginare un rinnovamento possibile del non allineamento, che diventerebbe «un non allineamento nei confronti della globalizzazione liberale e dell’egemonismo degli Stati Uniti».
2. Rinascita di un fronte Sud?
Il vertice di Kuala Lumpur L’ultimo vertice dei non allineati (Kuala Lumpur, febbraio 2003) ha probabilmente sorpreso qualche cancelleria meno attenta, convinta che nella nuova globalizzazione liberale il Sud non avesse più alcun potere. Sottomessi ai devastanti piani di riaggiustamento strutturale, presi alla gola dai prelievi del servizio del debito, governati da borghesie compradore, i paesi del Sud sembravano non essere più in grado di rimettere in discussione l’ordine capitalistico internazionale, al contrario di quello che avevano cercato di fare tra il 1955 e il 1981. Ma ecco che, tra la sorpresa generale, i non allineati condannano la strategia imperialistica di Washington, le sue mire sfrenate e criminali di controllo militare del mondo, il suo sviluppo basato sullo scatenamento continuo di guerre `made in Usa’, pianificate e decise unilateralmente dagli Stati Uniti.
I paesi del Sud prendono coscienza che la gestione neoliberista della globalizzazione non ha nulla da offrire loro e che, per questo motivo, è costretta per imporsi a ricorrere alla violenza militare, facendo così il gioco del progetto americano. Il movimento diventa un non allineamento nei confronti della globalizzazione liberale e dell’egemonismo degli Stati Uniti.
Il crollo del `socialismo’ sovietico, l’evoluzione intrapresa dalla Cina, la deriva dei regimi populisti del Terzo Mondo avevano fatto accettare l’idea secondo la quale `non esistevano alternative’. Era necessario inserirsi nel contesto del neoliberalismo globalizzato, giocare la partita e, se possibile, cercare di trarne qualche vantaggio. Non esistevano alternative. Ma in pochi anni l’esperienza ha smentito le ingenue speranze riposte in questa logica che si definiva `realista’.
Le linee direttrici di una grande alleanza in base alla quale la solidarietà tra i popoli e gli Stati del Sud potrebbe essere ricostruita.
A partire dalle posizioni adottate da alcuni Stati del Sud e dalle idee che si sono fatte strada, si assiste alla definizione di alcune linee direttrici del possibile rinnovamento di un `fronte del Sud’. Queste posizioni riguardano tanto il settore politico quanto la gestione economica della globalizzazione.
a. Sul piano politico: condanna del nuovo principio della politica degli Stati Uniti (`la guerra preventiva’) e richiesta di eliminare tutte le basi militari straniere in Asia, Africa e America Latina.
Le regioni scelte da Washington per i suoi interventi militari ininterrotti dopo il 1990) sono state il Medio Oriente arabo – Iraq, e Palestina (attraverso il sostegno incondizionato a Israele); i Balcani (Jugoslavia, nuovi insediamenti degli Stati Uniti in Ungheria, Romania e Bulgaria); l’Asia Centrale e il Caucaso (Afghanistan; Asia centrale e Caucaso ex sovietici).
Gli obiettivi perseguiti da Washington presentano aspetti diversi: a. il controllo delle più importanti aree petrolifere del mondo, così da fare pressione sull’Europa e sul Giappone per ridurli allo status di alleati subalterni; b. la creazione di basi militari americane permanenti nel cuore del mondo (l’Asia Centrale è a uguale distanza da Parigi, Johannesburg, Mosca, Pechino e Singapore), così da preparare future `guerre preventive’ rivolte in primo luogo contro i grandi paesi capaci di imporsi come partner con i quali si è costretti a `negoziare’ (la Cina innanzi tutto, ma anche la Russia e l’India). La realizzazione di questo obiettivo implica la creazione nei paesi della regione di regimi fantoccio sostenuti dalle armate degli Stati Uniti. A Pechino, a Mosca e a Delhi diventa sempre più chiaro che le guerre `made in Usa’ costituiscono in definitiva una minaccia diretta più contro la stessa Cina, la Russia e l’India che contro i loro nemici dichiarati, come l’Iraq.
In questa situazione si fa strada la richiesta sempre più pressante di un ritorno alla posizione di Bandung – nessuna base americana in Asia e in Africa – anche se nelle circostanze attuali i non allineati hanno accettato di non sollevare il problema dei protettorati americani nel Golfo Persico. I non allineati hanno adottato in questo caso una posizione vicina a quella che la Francia e la Germania hanno difeso in Consiglio di Sicurezza, contribuendo così ad accentuare l’isolamento diplomatico e morale dell’aggressore. A sua volta, il vertice franco-africano ha rafforzato l’idea di alleanza che si va delineando fra l’Europa e il Sud. Questo vertice infatti, con la presenza degli Stati anglofoni del continente, non può essere più considerato quello della `Françafrique’.
b. Anche nei settori della gestione economica del sistema mondiale, si vanno delineando le linee di un’alternativa che il Sud potrebbe difendere collettivamente, poiché gli interessi di tutti i paesi che ne fanno parte sono in questo caso convergenti.
I. Sta ritornando in campo l’idea che i trasferimenti internazionali di capitali debbano essere controllati. Di fatto l’apertura di prestiti in conto capitale, imposti dall’Fmi come un dogma del `liberismo’, mira a raggiungere un solo obiettivo: facilitare il trasferimento in massa dei capitali verso gli Stati Uniti per coprire il crescente deficit americano, risultato delle carenze dell’economia degli Stati Uniti e dello sviluppo della loro strategia di controllo militare del mondo.
Non vi è alcun interesse dei paesi del Sud a favorire questa emorragia dei loro capitali e i danni devastanti provocati dalle operazioni speculative. Di conseguenza, l’esposizione ai vari rischi del `cambio flessibile’, che è una conseguenza logica dell’apertura di prestiti in conto capitale, deve essere rimessa in discussione. Contro questi rischi, l’istituzione di sistemi di organizzazioni regionali in grado di assicurare una relativa stabilità dei cambi dovrebbe essere l’oggetto di ricerche e dibattiti sistematici tra i non allineati e i 77. Del resto, nella crisi finanziaria asiatica del 1997 la Malesia ha preso l’iniziativa di ristabilire il controllo dei cambi e ha vinto la propria battaglia. Lo stesso Fmi è stato costretto ad accettarla.
II. Ritorna l’idea di regolazione degli investimenti esteri. Di certo, i paesi del Terzo Mondo non pensano, come è avvenuto talvolta in passato, di chiudere le porte a tutti gli investimenti stranieri. Al contrario, gli investimenti diretti sono sollecitati. Ma le modalità di accoglienza sono di nuovo l’oggetto di riflessioni critiche alle quali alcuni ambienti governativi del Terzo Mondo non sono insensibili. In stretta relazione con questo tipo di regolamentazione è contestata la concezione dei diritti di proprietà intellettuale e industriale che il Wto vuole imporre. Ci si è resi conto che questa nozione, invece di favorire una concorrenza `trasparente’ sui mercati aperti, mira a rafforzare i monopoli delle imprese trasnazionali.
III. Molti paesi del Sud hanno nuovamente compreso che non possono fare a meno di una politica nazionale di sviluppo agricolo – una politica che tenga conto della necessità di proteggere il mondo rurale dal devastante processo di disintegrazione, accelerato per effetto della `nuova concorrenza’ che il Wto vuole promuovere in questo settore – e di preservare la sicurezza alimentare nazionale.
In effetti l’apertura dei mercati di prodotti agricoli, che permette agli Stati Uniti, all’Europa e a pochi paesi del Sud (quelli del Cono Sud dell’America) di esportare le loro eccedenze nel Terzo Mondo, minaccia gli stessi obiettivi di sicurezza alimentare nazionale, mentre le produzioni agricole del Terzo Mondo incontrano difficoltà insormontabili sui mercati del Nord. Questa strategia liberista, che disintegra le società rurali e che accentua la migrazione dalle campagne verso le bidonvilles urbane, provoca la ripresa di lotte contadine nel Sud.
La questione agricola è spesso discussa, soprattutto nel Wto, con l’ottica esclusiva delle sovvenzioni concesse dall’Europa e dagli Stati Uniti alle produzioni dei loro agricoltori e alle loro esportazioni agricole. Questo interesse esclusivo per il problema del commercio mondiale dei prodotti agricoli non tiene conto delle principali questioni cui abbiamo accennato in precedenza. Comporta inoltre curiose ambiguità, poiché invita i paesi del Sud a difendere tra gli applausi della Banca mondiale (ma da quando la Banca mondiale ha cominciato a difendere gli interessi del Sud contro quelli del Nord?) posizioni ancora più liberiste di quelle adottate dai governi del Nord. Nulla però impedisce di `sconnettere’ le sovvenzioni accordate agli agricoltori dai propri governi (dopo tutto, se difendiamo il principio della ridistribuzione del reddito nei nostri paesi, non vedo perché questo diritto non possa riguardare anche i paesi del Nord!) da quelle destinate a sostenere il dumping delle esportazioni agricole del Nord.
IV. Il debito non è più sentito solo come economicamente insostenibile: è la sua stessa legittimità a essere messa in discussione. Si delinea una rivendicazione diretta a rifiutare in modo unilaterale debiti esosi e illegittimi, e prende forma l’idea di un diritto internazionale – degno di questo nome – del debito, che ancora non esiste.
Un’analisi generalizzata del debito permette infatti di evidenziare una proporzione significativa di debiti illegittimi odiosi e talvolta usurari. I soli interessi pagati per il servizio del debito hanno raggiunto livelli tali che l’esigenza – giuridicamente fondata – del loro rimborso annullerebbe di fatto il debito in questione e farebbe apparire tutta questa operazione come una forma assolutamente barbara di saccheggio.
Per riuscire in questa impresa, l’idea che i debiti esteri debbano essere regolati da una legislazione normale e regolamentata, sull’esempio delle norme che disciplinano i debiti interni, deve diventare l’oggetto di un’iniziativa che si inserisca in una prospettiva di progresso del diritto internazionale e di rafforzamento della sua legittimità. Come sappiamo, è proprio l’assenza di norme giuridiche in questa materia che ne ha permesso la sua regolazione attraverso brutali rapporti di forza. Questi rapporti permettono di far passare per legittimi debiti internazionali che, se fossero materia di diritto interno (qualora il creditore e il debitore appartenessero alla stessa nazione e dipendessero dalla sua giustizia), configurerebbero l’ipotesi di reati assimilabili all’`associazione a delinquere’.
3. Nuove prospettive internazionali L’attuale sistema mondiale è troppo diverso nelle sue strutture fondamentali da quello del secondo dopoguerra per permettere un `remake’ di Bandung. A quell’epoca, i non allineati si trovavano in un mondo militarmente bipolare, che impediva un’ingerenza troppo forte dei paesi imperialisti nelle loro attività interne. Peraltro, questo bipolarismo favoriva l’unione dei partner dei centri capitalistici – Stati Uniti, Europa Occidentale e Giappone – in un unico schieramento. Il conflitto politico ed economico per la liberazione e per lo sviluppo contrapponeva quindi l’Asia e l’Africa a uno schieramento imperialistico unificato. I concetti di sviluppo autocentrato e di `sconnessione’ e le strategie che erano ispirate rispondevano a questa sfida.
Il mondo di oggi è militarmente unipolare. Nel frattempo, fra gli Stati Uniti e alcuni paesi europei sembrano delinearsi conflitti per quanto riguarda la gestione politica di un sistema globalizzato, ormai allineato sui principi del liberalismo. Queste divisioni sono congiunturali e di carattere limitato o preannunciano invece cambiamenti permanenti? Da questo punto di vista le ipotesi sulle quali si fondano le proposte strategiche devono essere chiarite, in modo da facilitare una discussione sulla loro eventuale validità.
Prima ipotesi: l’imperialismo è ormai diventato un imperialismo collettivo (della triade).
Nel corso delle precedenti fasi di sviluppo della globalizzazione capitalistica, i centri si definivano sempre al plurale. Questi intrattenevano fra loro relazioni di forte concorrenza permanente e di fatto il conflitto tra gli imperialismi occupava un ruolo centrale nella storia contemporanea. Dal 1980 in poi il ritorno al liberismo globalizzato, obbliga a ripensare la questione della struttura del centro attuale del sistema, poiché gli Stati della triade centrale, almeno sul piano della gestione della globalizzazione economica liberista, costituiscono ormai un blocco apparentemente solido.
La questione fondamentale è quindi quella di sapere se le evoluzioni in questione rappresentano un cambiamento qualitativo stabile – il centro non si definirebbe più al plurale ma avrebbe assunto un aspetto definitivamente `collettivo’ – o se si tratta invece di caratteristiche congiunturali.
Si potrebbe attribuire questa evoluzione alle trasformazioni delle condizioni della concorrenza. Ancora pochi decenni fa, le grandi imprese conducevano le loro battaglie concorrenziali soprattutto sui mercati nazionali, su quello degli Stati Uniti (il più grande mercato nazionale del mondo) o su quelli degli Stati europei (le cui modeste dimensioni li ponevano in condizioni sfavorevoli rispetto agli Stati Uniti). I vincitori di questi `scontri’ nazionali assumevano una posizione dominante sul mercato mondiale. Oggi la taglia del mercato necessaria per affermarsi nel primo ciclo di lotte si avvicina a 500-600 milioni di `consumatori potenziali’. La battaglia deve quindi essere combattuta sul mercato mondiale e vinta su questo terreno. Solo chi vincerà su questo mercato potrà imporsi anche sui rispettivi terreni nazionali. L’intensa globalizzazione diventa il principale settore di attività delle grandi imprese. In altre parole nel binomio nazionale/mondiale i termini si sono invertiti: in passato la potenza nazionale comandava l’aspetto mondiale, oggi è il contrario. Di conseguenza le imprese transnazionali, indipendentemente dalla loro nazionalità, hanno interessi comuni nella gestione del mercato mondiale. Questi interessi si sovrappongono ai conflitti permanenti e commerciali che definiscono tutte le forme della concorrenza proprie del capitalismo.
Seconda ipotesi: nel sistema dell’imperialismo collettivo gli Stati Uniti non dispongono di vantaggi economici decisivi L’opinione corrente è che la potenza militare degli Stati Uniti costituirebbe solo la punta dell’iceberg, proiettando la superiorità di questo paese in tutti i settori, in particolare economici, politici e culturali. La sottomissione all’egemonismo perseguito da Washington sarebbe quindi inevitabile.
In realtà il sistema produttivo degli Stati Uniti non è affatto il `più efficiente del mondo’. Al contrario, quasi nessuno dei suoi segmenti è certo di avere la meglio sui suoi diretti concorrenti in un mercato realmente aperto. Lo testimonia il deficit commerciale degli Stati Uniti, che aumenta di anno in anno ed è passato da 100 miliardi di dollari nel 1989 a 450 nel 2000. Inoltre, questo disavanzo riguarda in pratica tutti i settori del sistema produttivo. Anche l’eccedenza di cui beneficiavano gli Stati Uniti nel settore dei prodotti di alta tecnologia, che era di 35 miliardi di dollari nel 1990, è ormai in deficit. La concorrenza fra gli Ariane e i missili della Nasa, Airbus e Boeing testimonia la vulnerabilità del vantaggio americano. Di fronte all’Europa e al Giappone per le produzioni di alta tecnologia, alla Cina, alla Corea e agli altri paesi industrializzati dell’Asia e dell’America Latina per i manufatti più semplici, all’Europa e al Cono Sud dell’America Latina per l’agricoltura, gli Stati Uniti non potrebbero avere la meglio senza il ricorso a mezzi `extraeconomici’ che violano quei principi di liberismo che essi vorrebbero imporre ai concorrenti.
In realtà, gli Stati Uniti beneficiano di vantaggi comparati solo nel settore degli armamenti, proprio perché questo campo sfugge largamente alle regole del mercato e beneficia del sostegno dello Stato. Probabilmente, questo vantaggio comporta alcune ricadute nel settore civile (Internet ne costituisce l’esempio più noto), ma è anche all’origine di distorsioni che rappresentano svantaggi in molti settori produttivi.
Di fatto, nel sistema mondiale l’economia nordamericana vive parassitariamente a spese dei suoi partner. «Gli Stati Uniti dipendono per il 10% del loro consumo industriale dai beni la cui importazione non è coperta dalle esportazioni di prodotti nazionali».
Il mondo produce, gli Stati Uniti (il cui risparmio nazionale è praticamente nullo) consumano. `Il vantaggio’ degli Stati Uniti è quello di un predatore il cui deficit è coperto dal contribuito fornito, in modo più o meno spontaneo, dagli altri. I mezzi impiegati da Washington per compensare le sue carenze sono di natura diversa: violazioni unilaterali e ripetute dei principi del liberismo, esportazione di armi, ricerca di extraprofitti petroliferi (che presuppongono uno stretto controllo dei paesi produttori, il vero motivo delle guerre in Asia centrale e in Iraq). Tuttavia la maggior parte del deficit americano è finanziato dai capitali provenienti dall’Europa, dal Giappone, dal Sud (paesi petroliferi ricchi e classi compradore di tutti i paesi del Terzo Mondo, inclusi quelli più poveri), ai quali si aggiungono i prelievi esercitati a titolo di servizio del debito imposto alla quasi totalità dei paesi della periferia del sistema mondiale.
La solidarietà dei segmenti dominanti del capitale transnazionale di tutti i partner della triade è reale, e si esprime con la loro adesione al neoliberismo globalizzato. In questa prospettiva gli Stati Uniti sono visti come i difensori (militari se necessario) di questi `interessi comuni’. Tuttavia Washington non è disposta a `dividere equamente’ i profitti della sua leadership. Al contrario, gli Stati Uniti cercano di assoggettare i loro alleati e sono disposti a fare solo concessioni minori agli alleati subalterni della triade. Questo conflitto di interessi del capitale dominante è destinato a provocare una rottura nell’alleanza atlantica? Si tratta di un’ipotesi non impossibile, ma poco probabile.
Terza ipotesi: il progetto di controllo militare del mondo è destinato a compensare le deficienze dell’economia degli Stati Uniti. Questo progetto minaccia tutti i popoli del Terzo Mondo.
Questa ipotesi deriva logicamente dalla precedente. La decisione strategica di Washington di trarre profitto dalla sua schiacciante superiorità militare e, in questa prospettiva, di ricorrere a `guerre preventive’ mira ad annullare la speranza di qualunque `grande nazione’ (come la Cina, l’India, la Russia e il Brasile) o coalizione regionale del Terzo Mondo di accedere allo status di partner effettivo nell’organizzazione del sistema mondiale.
Quarta ipotesi: il Sud può e deve liberarsi dalle illusioni liberali e impegnarsi in forme nuove di sviluppo autocentrato Attualmente i governi del Sud continuano a battersi per un `vero neoliberismo’, del quale avrebbero accettato `le regole del gioco’ insieme ai paesi del Nord. Ma i paesi del Sud saranno ben presto costretti a constatare che questa speranza è del tutto illusoria. Dovranno tornare al concetto fondamentale del carattere autocentrato di qualunque forma di sviluppo. Svilupparsi significa prima di tutto definire degli obiettivi nazionali che permettano la modernizzazione dei sistemi produttivi e la creazione delle condizioni interne di progresso sociale. Dopodiché sarà necessario subordinare le modalità delle relazioni della nazione con i centri capitalistici sviluppati alle esigenze di questa logica. Questa definizione della `sconnessione’ – ben diversa dalla nozione di `autarchia’ – pone questo concetto agli antipodi del principio (liberista) di `aggiustamento strutturale’ alle esigenze della globalizzazione. Un principio che è necessariamente sottoposto agli imperativi esclusivi dell’espansione del capitale transnazionale dominante e che approfondisce le disuguaglianze su scala mondiale.
Quinta ipotesi: l’opzione degli Stati Uniti in favore della militarizzazione della globalizzazione colpisce duramente gli interessi dell’Europa e del Giappone.
Questa ipotesi deriva dalla seconda. L’obiettivo degli Stati Uniti, perseguito, fra l’altro, attraverso la realizzazione del controllo militare di tutte le risorse strategiche del mondo (in particolare il petrolio), è quello di subordinare i partner europei e giapponesi. Di fatto le guerre americane del petrolio sono guerre `antieuropee’. L’Europa (e il Giappone) potrebbero rispondere parzialmente a questa strategia con un avvicinamento alla Russia, capace in parte di fornire loro il petrolio e altre materie prime essenziali.
Sesta ipotesi: l’Europa può e deve liberarsi dal virus liberista; un’iniziativa che non può venire dai segmenti del capitale dominante, ma dai popoli.
I segmenti dominanti del capitale, i cui interessi sono difesi dai governi europei, sono i sostenitori del neoliberismo globalizzato e di conseguenza accettano di pagare il prezzo della loro subordinazione al leader nordamericano.
In Europa i popoli hanno una visione diversa del progetto europeo, che vorrebbero più sociale, e delle loro relazioni con il resto del mondo, che vorrebbero gestite sulla base del diritto e della giustizia, come dimostra la condanna – a grande maggioranza – dell’atteggiamento degli Stati Uniti. Se questa cultura politica umanista e democratica della `vecchia Europa’ riuscirà a prevalere – e non è escluso che ciò accada – allora un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia e l’Africa costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico.
La contraddizione principale fra l’Europa e gli Stati Uniti non riguarda quindi i vari interessi del capitale dominante, ma va ricercata sul terreno delle culture politiche. In Europa un’alternativa di sinistra è ancora possibile. Questa alternativa imporrebbe una rottura con il neoliberismo (e l’abbandono della speranza illusoria di sottomettere gli Stati Uniti alle sue regole, così da permettere al capitale europeo di battersi sul terreno di una corretta competizione economica) e con la subordinazione alle strategie politiche degli Stati Uniti. In questo caso il surplus di capitali che l’Europa si limita finora a `investire’ negli Stati Uniti potrebbe essere destinato a un rilancio economico e sociale altrimenti impossibile. Ma se l’Europa dovesse scegliere di dare la priorità al suo sviluppo economico e sociale, la vitalità fittizia dell’economia degli Stati Uniti crollerebbe e la classe dirigente americana sarebbe confrontata da gravi problemi sociali. Di conseguenza la nostra conclusione è: l’Europa sarà di sinistra o non sarà affatto.
Per arrivarci è necessario che gli europei si sbarazzino dell’illusione che la carta del liberismo possa – e debba – essere giocata `onestamente’ da tutti. Gli Stati Uniti non possono rinunciare alla loro scelta in favore di una pratica asimmetrica del liberismo, poiché questo è l’unico mezzo a loro disposizione per compensare le loro stesse carenze: la `prosperità’ americana ha come prezzo la stagnazione delle altre economie.
È qui che si inserisce la `questione europea’. Le `culture politiche europee’ sono diverse, anche se in generale confliggono con quella degli Stati Uniti. Esistono in Europa forze politiche, sociali e ideologiche che sostengono – spesso con lucidità – la visione di `un’altra Europa’ (un continente sociale e in buoni rapporti con il Sud). Ma vi è anche la Gran Bretagna che nel 1945 ha fatto la scelta storica di adeguarsi in maniera incondizionata sulle posizioni degli Stati Uniti. Esistono inoltre le classi dirigenti dell’Europa dell’Est, caratterizzate da una cultura di dipendenza, sottomesse ieri a Hitler, poi a Stalin e oggi a Bush. Vi sono infine i populismi di destra (gli eredi del franchismo in Spagna, la nuova destra in Italia) `filoamericani’. Il conflitto fra queste culture potrà far esplodere l’Europa? Si concluderà con l’accettazione delle posizioni di Washington? Oppure permetterà la vittoria delle culture umaniste e democratiche avanzate?
Settima ipotesi: la ricostruzione di un fronte compatto del Sud implica la partecipazione dei suoi popoli.
Negli Stati del Sud raramente i regimi politici al potere sono democratici. Queste strutture autoritarie di potere favoriscono le classi compradore, i cui interessi sono legati all’espansione del capitalismo imperialista globale.
L’alternativa – la costruzione di un fronte dei popoli del Sud – passa attraverso la democratizzazione. Questa democratizzazione necessaria sarà difficile e lunga, ma non potrà certo farsi attraverso la creazione di governi fantoccio, che concedono le risorse dei loro paesi al saccheggio delle società transnazionali nordamericane. Regimi che di fatto sarebbero ancora più fragili, meno credibili e meno legittimi di quelli ai quali si sostituirebbero sotto la protezione dell’invasore americano. In realtà l’obiettivo degli Stati Uniti, nonostante tutti i loro discorsi ipocriti, non è certo quello di promuovere la democrazia nel mondo.
Ottava ipotesi: un nuovo internazionalismo dei popoli che associ europei, asiatici, africani e americani è quindi possibile.
Questa ipotesi, che deriva dalla precedente e ne costituisce la conclusione, significa che esistono le condizioni che permettano un avvicinamento di tutti i popoli del Vecchio Mondo. Questo avvicinamento si concretizzerebbe sul piano della diplomazia internazionale attraverso l’asse Parigi-Berlino-Mosca-Pechino, rafforzato dallo sviluppo di relazioni amichevoli tra questo asse e il ricostituito fronte afro-asiatico.
Ovviamente questi progressi permetterebbero di contenere l’ambizione sfrenata e criminale degli Stati Uniti. Essi sarebbero costretti ad accettare la coesistenza con nazioni decise a difendere i propri interessi.
Attualmente questo obiettivo deve essere considerato assolutamente prioritario. L’organizzazione del progetto americano condiziona tutte le lotte: nessun progresso sociale e democratico sarà possibile finché il piano americano non sarà bloccato.
Nona ipotesi: le questioni relative alla diversità culturali devono essere discusse nel quadro delle nuove prospettive internazionali che abbiamo qui definito.
La diversità culturale è una realtà. Ma una realtà complessa e ambigua. Le diversità ereditate dal passato, per quanto legittime, non sono necessariamente sinonimo di diversità nella costruzione di quel futuro che non solo bisogna accettare ma anche promuovere.
Parlare delle sole diversità ereditate dal passato (Islam politico, induismo, confucianesimo, negritude, esclusivismi etnici e così via) è spesso un esercizio demagogico compiuto dai poteri autocratici e compradori. Uno strumento che permette loro al tempo stesso di risolvere la sfida rappresentata dall’universalizzazione della società e di sottoporsi al diktat del capitale transnazionale dominante. Del resto l’insistenza esclusiva su queste eredità divide il Terzo Mondo, contrapponendo in Asia Islam politico e induismo, e in Africa musulmani, cristiani e fedeli di altre religioni. La ricostituzione di un fronte politico unito del Sud è il mezzo per superare queste divisioni sostenute dall’imperialismo americano. Ma quali sono e cosa possono essere questi `valori universali’ in base ai quali ricostruire il futuro? L’interpretazione occidentalo-centrica e restrittiva di questi valori legittima lo sviluppo disuguale connessa all’espansione capitalistica globalizzata di ieri e di oggi. Questa concezione deve essere rifiutata. In che modo allora far avanzare concetti autenticamente universali e arricchiti grazie al contributo di tutti? È un dibattito che, pur estraneo al contenuto della nostra analisi, non può essere ignorato.
(traduzione di Andrea De Ritis)