Strategia senza uscita

Il discorso tenuto del presidente George Bush, «Prima vinciamo, poi ce ne andiamo», è piovuto ieri come una doccia fredda su tutti coloro che hanno sostenuto un possibile, imminente, avvio di un ritiro delle truppe Usa dall’Iraq in conseguenza delle sempre più alte perdite (siamo ormai a circa 80 caduti al mese), al crollo della popolarità dell’Amministrazione con oltre il 52% degli americani che vorrebbe un ritiro immediato o entro il 2006 (Cnn-Gallup), all’aggravarsi del caos iracheno e allo scivolare del paese verso una strisciante guerra civile a sfondo etnico-confessionale. Il rifiuto da parte del presidente Bush di prendere in considerazione una trattativa con la resistenza e quindi un ritiro dall’Iraq, pone pesanti interrogativi anche su un possibile ritiro delle truppe italiane dalla Mesopotamia. Il ministro degli esteri Gianfranco Fini, a poche ore dal discorso del presidente Bush, si è affrettato a precisare che «il consolidarsi delle condizioni di sicurezza in Iraq è indispensabile per procedere ad un graduale rientro delle truppe impegnate in quel paese». Il problema è che una vittoria in Iraq delle forze di occupazione, per ammissione degli stessi comandi militari americani, è praticamente impossibile e comunque estremamente improbabile dal momento che il combustibile per la locomotiva della resistenza, è la stessa presenza delle truppe straniere e quello per la macchina della violenza è costituito dalla politica seguita dall’Amministrazione Usa in Iraq a cominciare da quel «processo politico» – purtroppo accreditato anche da alcuni settori dell’Ulivo – il cui «compimento» è indicato come il presupposto di un ridimensionamento della presenza militare straniera. Questo «processo politico» si basa infatti sull’istituzionalizzazione delle differenze etnico-confessionali, con il mantenimento del controllo del paese nelle mani degli occupanti e il conferimento del potere locale ai partiti sciiti e curdi pro-Usa e pro-Iran, ma in entrambi i casi pro-occupazione, attualmente al governo, e nell’emarginazione di tutti coloro che contestano il saccheggio neo-coloniale dell’Iraq. In particolare, ma non solamente, dei settori nazionalisti arabi della comunità sunnita. La distribuzione dei posti di governo non sulla base di una intesa «nazionale» ma sulle presunte (in mancanza di qualsiasi referendum e senza tener conto di milioni di famiglie«miste») percentuali sul totale della popolazione delle varie comunità etniche e religiose (arabi-sunniti, curdi-sunniti, arabi sciiti, turcomanni, cristiani etc.) ha portato ad una vera «libanizzazione» dell’Iraq. Questa a sua volta ha impedito la nascita di partiti nazionali e, cosa ancora più grave, si è via via estesa alle nuove forze di polizia e dell’esercito divenute sempre più appendice delle varie milizie etniche e confessionali dei partiti curdi e sciiti pro-Usa.

In tal modo la repressione della resistenza è andata assumendo un carattere sempre più confessionale aggravando ulteriormente l’alienazione dall’occupazione della gran parte della comunità sunnita e dei settori sciiti e laici contrari alla dominazione Usa. La politica americana tesa a favorire la disgregazione dell’Iraq – per controllarne meglio le risorse petrolifere, impedire un’unità nazionale anti-occupanti e far scomparire dalla mappa del conflitto israelo-arabo-palestinese uno dei paesi arabi più importanti della regione- già avviatasi con lo scioglimento dell’esercito iracheno e rafforzatasi con la creazione di forze di sicurezza settarie e confessionali, è stata poi sancita dalla nuova costituzione imposta al paese nel recente referendum farsa di ottobre, che divide l’Iraq in tre entità etnico-confessionali. Un progetto questo che ha gettato e ancora getterà nuova benzina sul fuoco del conflitto. Si parla di unità dell’Iraq e lo si divide, si parla di inglobare i sunniti nel «processo politico» e si radono al suolo le loro città o li si brucia con fosforo, si parla di democrazia e si lascia campo libero -dopo averli adeguatamente addestrati- agli squadroni della morte. Si parla di «exit strategy» e si porta avanti un processo politico neo-coloniale di controllo permanente dell’Iraq.

Se si continua su questa strada parlare di ritiro è illusione o, più precisamente, menzogna.