Le vacanze sono finite. Ma per i detenuti non sono mai cominciate. E i problemi del carcere sono sempre gli stessi. Solo che, durante le ferie, li avevamo dimenticati. Ma con l’autunno alle porte, come l’ombra di Banquo, tornano a bussare prepotentemente alle nostre porte. Ed esigono, con rabbia, di essere ascoltati. Inutile gridare, come Macbeth: «Via di qui, orribile ombra, beffa senza realtà, via».
Il carcere non è un fantasma. Shakespeare non aiuta. E puntualmente abbiamo il cadavere di un altro detenuto. Morto, ancora non si sa bene come, a Porto Azzurro (l’ex, famigerato, Porto Longone). In più, torna a galla, anzi esplode il problema dei detenuti stranieri. Per la precisione, secondo il Sindacato autonomo degli agenti penitenziari (Sappe), di quelli, tra essi, islamici. I quali, teme, in sintesi, questo sindacato, possono convertire i reclusi italiani e farne, come è successo a quanto pare in Inghilterra, almeno di alcuni, dei potenziali kamikaze. E il sindacato, per contrastare ciò, chiede dei corsi di formazione speciali. Clemenceau diceva: «Per affossare un problema, nulla di meglio di una bella Commissione d’indagine». Noi siamo più modesti: ci basta un corso di formazione.
Ricordiamo qualche dato. I detenuti, in Italia, sono 59.200. Di essi, il 30 per cento è tossicodipendente e un altro 30 per cento è di origini straniere. La capienza dei 205 istituti di pena è di 42.540 posti; i detenuti in più, rispetto ai posti disponibili, sono 16.660. In realtà, queste cifre non riflettono la concreta realtà. Si pensi, a esempio, che le celle di un carcere come Regina Coeli o San Vittore, in origine, dovevano ospitare un solo detenuto. Poi, con un letto a castello, da uno i posti, per ogni cella, sono diventati tre e ora, in certi casi, si stipano, nello stesso ambiente, anche quattro reclusi. Ma la questione più seria è che il carcere è cambiato. E’ un’altra cosa rispetto a dieci, quindici anni fa. Il sistema carcere è saltato. E’ un’istituzione morta, sorpassata. E i detenuti stranieri sono la rappresentazione visiva, la cartina di tornasole di questo fenomeno.
Prima, alla fine degli anni ’60, dopo le rivolte, gli omicidi a catena, i suicidi a getto continuo, si era arrivati, con la legge Gozzini, a una svolta. Si erano introdotti, per i reclusi, una serie di benefici: semilibertà, lavoro all’esterno, permessi premio, eccetera, eccetera. A condizione – si capisce – per i detenuti, di serbare buona condotta. Una sorta, se vogliamo, di “ricatto” fondato sulla bilancia dei privilegi e delle punizioni: “Tu fai il buono e io ti premio”. Con i detenuti stranieri ciò non è possibile. Non hanno fissa dimora, non hanno famiglia in Italia, sono privi di permesso di soggiorno, nessuno è disposto ad assumerli, spesso i loro stessi nomi sono falsi. Dunque, come stringere un accordo con loro? Non basta. Gli immigrati, prima di entrare in carcere, subiscono un terribile processo di marginalizzazione sociale e criminalizzazione. E arrivano in prigione già carichi, anzi sovraccarichi di problemi esistenziali.
Giusto per rammentare cose note (ripetere spesso è indispensabile), gli immigrati, in fuga dalla fame, dalla guerra e dalla malattia, sono arrivati, in Italia, come in Europa, perché il nostro sistema economico ne ha assoluta necessità, almeno per ora. Ma non hanno trovato l’Eldorado. Né in Europa, né in Italia. Da noi, poi, si sono imbattuti con disorganizzazione e imprevidenza senza pari. Oggetto di scontro politico-ideologico tra “buonisti” e “cattivisti”, di altisonanti dichiarazioni di principio e di sostanziale inazione, nessuno, salvo la Caritas e poche altre strutture similari (di molti centri pro immigrati, vere e proprie associazioni per delinquere, per carità di patria, è meglio non fare cenno), si è preoccupato, concretamente, non a chiacchiere, delle loro indifferibili esigenze materiali: alloggio, vitto, luoghi di riunione o di culto, centri di informazione, amministrativi, di indirizzo al lavoro, scuole di italiano, formazione tecnica.
Costretti a muoversi, abitare e vivere tra inimicizia, diffidenza e avversione, stigmatizzati come non-persone, spesso privi di lavoro (sia pure in nero), di documenti e di alloggio, accusati di avere una particolare propensione a delinquere, ignari delle regole da rispettare, per molti, troppi di loro, la strada è diventata rifugio, casa, centro commerciale, luogo di spaccio e ricettazione, cesso per defecare e orinare, posto dove ubriacarsi, litigare, aggredire i passanti, molestare le donne, urlare la propria rabbia e disperazione anche a notte fonda.
E dalla strada al carcere la via è breve. E’ ovvio, naturale, che nel crimine gli immigrati portino le proprie abitudini e la propria cultura. Ritornano così a essere impiegate armi desuete come il coltello, la prostituzione si trasforma talvolta in schiavitù e alle rapine si associa sovente la violenza carnale. E ormai, nella grandi città del Centro e del Nord (nel Meridione il discorso è diverso), interi settori illegali sono dominio di bande straniere, spesso, in dipendenza delle diverse nazionalità, in conflitto tra loro. Prime avvisaglie dei grandi scontri che ci attendono.
All’inizio, alcuni di questi immigrati, per sopravvivere, non hanno altra scelta che diventare manovalanza per le gang locali. Ma imparano in fretta la lezione. In carcere completano l’addestramento, trovano un’identità, selezionano i leader e, una volta fuori, su base etnica si mettono in proprio. La prigione, inoltre, incattivisce, indurisce e alimenta gli odi interetnici. Per di più, gli immigrati, per rispondere all’ostilità da cui sono circondati e per evitare di essere colonizzati o integrati in una cultura – quella locale – che rifiutano, si concentrano per etnie nelle varie zone della città. Non solo come aggregati abitativi, ma anche per attività commerciali. Il ghetto è l’unico strumento che hanno a disposizione per difendersi e preservare le loro radici: i cinesi con i cinesi, i neri con i neri, i nordafricani con i nordafricani, i bengalesi con i bengalesi.
Ciò, naturalmente, alimenta la minacciosa reazione dei residenti italiani nei popolosi quartieri periferici (in quelli centrali, anche se degradati, gli italiani sono pochi e anziani) e, per converso, aumenta il senso di insicurezza e di sradicamento degli immigrati. E tutto diventa occasione di conflitto: la religione, i riti matrimoniali, il vitto, le feste, gli abiti, la macellazione della carne, persino il tono di voce. Né potrebbe essere altrimenti. Non siamo ancora arrivati, per tema di risse sanguinose, a proibire, in periferia, locali partite di pallone tra italiani e immigrati e tra le varie nazionalità degli stranieri. Ma, presto o tardi, ci arriveremo. Soprattutto, e in particolare, quando i figli e i nipoti degli attuali immigrati, presa coscienza della loro condizione e dei patimenti subiti, rivendicheranno la propria cultura e la propria religione come armi contro l’omologazione che ci illuderemo di imporre loro. Ed è possibile che tra questi giovani chi, per nascita, memoria e presente, avrà, come proprio sentire, forte coscienza di una religione missionaria e in espansione come l’Islam, aspiri a quella ricerca di verità e assoluto i cui effetti sono storicamente noti. Ci vuole, dunque, ben altro che, in carcere, un corso di formazione per ostacolare un processo di proselitismo che ha radici profonde e lontane. E che potrebbe diventare il principale problema della società italiana.