Stranieri in Italia, forza preziosa nascosta o sottoutilizzata

Nell’ultimo quinquennio il tasso di disoccupazione in Italia è diminuito di circa un punto e mezzo, passando dal 9,1% del 2001 al 7,7% del 2005 (7,6% nel I trimestre del 2006). Questo progressivo assottigliarsi del tasso di disoccupazione è avvenuto in anni di crescita economica esigua (nel 2005 prossima allo zero) rendendo lecito domandarsi come possa un’economia che non cresce produrre nuova occupazione. I tifosi della flessibilità del lavoro non hanno esitato ad attribuire questo risultato alle riforme del mercato del lavoro, invocando ulteriore flessibilità. In realtà proprio l’Istat ha ammesso che gran parte dell’incremento occupazionale è riconducibile ad un fatto statistico-contabile, che si spiega attraverso il graduale inserimento dei lavoratori immigrati nella popolazione residente dopo la sanatoria del 2002. Fenomeni analoghi, seppur in proporzioni inferiori a causa del numero minore di lavoratori stranieri interessati, si sono osservati in seguito alle sanatorie del 1990, 1995, 1998.
La lenta emersione del lavoro migrante è ancora lontana dall’esaurirsi: l’ultima rilevazione trimestrale sulle forze di lavoro segnala che nel primo trimestre 2006 il numero di occupati è aumentato, rispetto a un anno prima, dell’1, 7% (+ 374mila unità) e che la crescita è dovuta per tre quinti alla componente straniera (+ 224mila unità). Si tratta di persone già occupate nel mercato del lavoro ma lentamente evidenziate dalle statistiche. A riprova di ciò c’è il costante aumento occupazionale registrato negli ultimi anni dai settori dell’agricoltura e delle costruzioni, dove è alta la concentrazione di lavoro migrante.

A dispetto del contributo significativo che i lavoratori stranieri forniscono alla nostra economia, le statistiche ufficiali ci dicono pochissimo di queste persone e delle loro professionalità. Solo nei primi mesi del 2006 l’Istat ha cominciato a diffondere dati sulla forza lavoro straniera in Italia. Dalle statistiche, fino ad oggi poco riprese, emerge la conferma di un lavoro migrante istruito e qualificato (in proporzione assai più istruito degli occupati con cittadinanza italiana) ma largamente sottoutilizzato rispetto alla professionalità che è in grado di esprimere. Infatti, circa la metà degli occupati stranieri è in possesso di una laurea o di un diploma, mentre il 36,4% è in possesso della licenza media. Ciò nonostante quasi il 40% di quelli che hanno una laurea svolgono un lavoro non qualificato o un’attività comunque manuale.

L’incidenza cresce fino ad oltre il 60% fra gli occupati in possesso di un diploma. In aggiunta a ciò si comincia a intravedere, nell’occupazione degli stranieri, una etnicizzazione delle professioni che ricorda molto da vicino il mercato del lavoro statunitense. Questo in riferimento anche ai lavoratori neo comunitari, per i quali solo dallo scorso luglio (grazie ad un intervento legislativo del governo italiano che ha recepito una raccomandazione comunitaria) vale la libera circolazione nell’area Ue. E’ ancora l’Istat a segnalare che circa un terzo degli occupati stranieri risulta inserito nel segmento più basso del sistema occupazionale. Le professioni maggiormente svolte sono quelle di manovale edile, bracciante agricolo, operaio nelle imprese di pulizia, collaboratore domestico. Lavori a bassa qualificazione in cui è richiesta spesso forza fisica e resistenza. La quota maggiore di lavoratori stranieri, circa il 40%, si colloca però tra gli artigiani, gli operai specializzati, i conduttori di impianti. Vi rientrano elettricisti, carpentieri, falegnami, operai addetti alle macchine meccaniche, camionisti: professioni in cui il lavoro manuale è comunque preminente. Il restante 20% degli stranieri si divide tra impiegati, professioni del commercio e dei servizi (commesse, cuochi, camerieri, baristi e magazzinieri) ed i pochi con professioni qualificate (gestori di attività, infermieri, insegnanti di lingue straniere o traduttori).

Anche il tasso di occupazione tra la popolazione straniera è sensibilmente superiore a quello riscontrabile tra la popolazione di cittadinanza italiana: quasi nove immigrati su dieci in età lavorativa hanno un impiego, contro sette su dieci tra gli italiani. Questo vale anche per l’occupazione femminile: le straniere lavorano di più delle italiane. Nel loro complesso, dunque, i cittadini stranieri contribuiscono con un’intensità maggiore degli italiani all’andamento economico. Ciononostante, l’incapacità del nostro sistema produttivo di valorizzare istruzione e professionalità di questi lavoratori produce due fenomeni di segno negativo, come segnalato in un recente studio su dati del Naga (storica associazione milanese).

Da una parte i paesi di origine vengono impoveriti e privati di risorse ed intelligenze (brain drain) e dall’altra il nostro sistema economico non è in grado di utilizzare in maniera adeguata l’alta professionalità di cui gli immigrati sono portatori, provocando un ulteriore spreco, non solo di vite e di storie personali, ma anche di risorse (brain waste).