Storia di una città ribelle a ogni invasore

L’avventura italiana in Mesopotamia al fianco delle truppe di occupazione americane, «operazione antica Babilonia», prese le mosse nel luglio del 2003 quando un nostro contingente, inquadrato nel comando di divisione britannico con sede a Basra, assunse il controllo della città di Nassiriya, adagiata sul fiume Eufrate, nel sud dell’Iraq, e della circostante provincia di Dhi Qar. Contrariamente all’aria mollemente afosa e stanca dell’Eufrate, ormai in procinto di unirsi con il più vorticoso Tigri nello Shatt el arab e a sfilacciarsi più a sud nei mille rivoli delle paludi di Hor al Hammar, la zona di Nassiriya è una di quelle che più duramente hanno sempre resistito alle invasioni straniere come ha avuto modo di dimostrare anche nel corso della guerra del 2003. Non a caso uno dei momenti più difficili per le forze americane entrate in Iraq dal deserto saudita fu proprio il passaggio dei tre grandi ponti di Nassiriya – ad appena venti chilometri dall’antica Ur, la patria di Abramo – per entrare dal deserto nel cuore verde della Mesopotamia.
Nassiriya, a circa 350 chilometri a sud di Baghdad, è una città relativamente moderna creata verso la fine dell’ottocento dall’impero ottomano per controllare le sempre ribelli tribù della zona ed è stata uno dei più importanti centri di resistenza contro l’occupazione britannica sia durante la prima guerra mondiale sia, successivamente, negli anni venti, quando la rivolta politico-religiosa contro il «mandato» costò alle forze di sua maestà oltre 100.000 uomini. Centro di grande fermenti culturali nel corso degli anni cinquanta e sessanta, Nassiriya vide un costante rafforzarsi della presenza del Partito comunista (qui nato negli anni trenta) verso il quale guardavano molti giovani, soprattutto sciiti, insofferenti del regime feudale della proprietà della terra caratterizzato da grandi latifondi, spesso nelle mani delle stesse autorità religiose sciite, oscurantiste e conservatrici. Autorità religiose islamiste spesso aizzate dagli ambasciatori inglesi contro il Partito Comunista prima e poi lo stesso Baath colpevoli di portare avanti la riforma agraria e la nazionalizzazione del settore petrolifero. Per riguadagnarsi la fedeltà della città e dei suoi abitanti, il partito Baath negli anni settanta e ottanta, con un certo successo, investì massicciamente a Nassiriya in progetti di sviluppo industriale (fabbriche di alluminio e di cavi, raffinerie) e nei servizi sociali con una nuova università e un moderno ospedale. Tutto cambiò con la guerra del 1991 quando parte della città si sollevò al termine della prima guerra del Golfo contro il governo centrale di Baghdad che da allora, senza più molti mezzi per via dell’embargo, avrebbe concentrato i suoi investimenti nelle zone a lui più fedeli. Poco lontano, nelle grandi paludi, ed in particolare nella zona di Suq al Shuyukh, per tutti gli anni novanta continuò così a svilupparsi una dura resistenza di vari movimenti sciiti filo-iraniani, ma non solo, contro il governo di Baghdad.
La popolazione della regione, oltre un milione e duecentomila abitanti, è in gran parte sciita anche se vi sono alcune importanti tribù sunnite. I rivolgimenti bellici ed economici, le distruzioni continue, la repressione, l’embargo hanno praticamente distrutto la vita culturale e politica della città e in questo deserto gli spazi lasciati liberi dal ridimensionamento o dalla scomparsa dei partiti laici – comunque presenti in città – è stato colmato da vari movimenti politico-religiosi. Tra questi i più presenti sono quelli sciiti più radicali, composti in gran parte da giovani disoccupati o sotto-occupati, facenti riferimenti a delle varianti locali della galassia di Moqtada al Sadr e ad alcuni leader della resistenza nelle paludi contro il passato regime. Gli si contrappongono i gruppi religiosi più conservatori vicini all’ayatollah al Sistani e ad alcuni esponenti religiosi locali, alcuni dei quali in ottimi rapporti con gli occupanti. A dividere i due campi, spesso comunque uniti dal forte collante tribale, vi sono non solo i riferimenti nazionali, gli al Sadr – sciiti ma «prima di tutto iracheni» – e gli al Hakim del Partito per la rivoluzione islamica in Iraq (Sciri)- assai vicini a Tehran – ma anche profonde differenze sociali, economiche e culturali tra i giovani originari della città e gli esponenti politici e/o tribali venuti a Nassiriya dai centri vicini se non dall’Iran, sui carri armati degli occupanti, per assumere l’amministrazione locale ingrassandosi con i contributi destinati alla ricostruzione.
Nonostante la sostituzione per ben due volte del governatore della città e l’elezione di un consiglio locale l’unica attività che prospera a Nassiriya è quella della corruzione e del nepotismo: al di fuori di ciò, del campo sportivo e del piccolo carcere ammodernato dagli italiani nulla è stato fatto. L’acqua continua ad essere un bene raro, le fogne sono quelle degli anni sessanta, l’elettricità registra lunghissimi black-out, le fabbriche sono chiuse, l’ospedale non funziona. Le truppe italiane, percepite dalla popolazione locale come forze di occupazione a protezione dei nuovi, corrotti e incapaci leader locali, hanno dato vita ad alcuni programmi di assistenza ma si tratta di gocce nel mare sia per l’enormità dei bisogni della popolazione, sia per l’esiguità dei finanziamenti tutti assorbiti dagli aspetti militari dell’operazione. Ancora una volta i soldati di stanza a Nassiriya sono stati in primo luogo vittime dell’impossibilità di svolgere un mandato di «peace keeping» e allo stesso tempo di «controguerriglia» in un quadro di brutale occupazione militare e di sempre più attiva resistenza. Questa pericolosissima ambiguità rischia ora di riprodursi con il passaggio – sostenuto sia da Berlusconi che da Prodi – da «Antica» a «Nuova Babilonia». Il progetto – made in Nato – che vede il ritiro dei contingenti militari e la permanenza in loco di circa 600 carabinieri per «proteggere» gli interventi «civili» e addestrare la polizia irachena. Una prospettiva ancor più inutile e rischiosa della precedente dal momento che la riduzione degli effettivi minerà la capacità operativa del contingente – aumentando i rischi per i nostri soldati – mentre allo stesso tempo appariremo agli occhi della popolazione irachena sempre più come forze occupanti, sempre più soli al fianco degli Usa e della Gran Bretagna. Il tutto sullo sfondo di un costante peggioramento della situazione nel sud dell’Iraq e di un aumento dell’ostilità da parte della popolazione sciita locale. Senza pensare che un precipitare dello scontro Usa-Iran trasformerebbe i nostri soldati nelle vittime sacrificali di una politica incerta e subalterna a quella Usa.