Storia di Sharon, il falco di Sabra che oggi guida il ritiro dai Territori

«Non è un segreto che io abbia creduto e sperato che potessimo restare per sempre a Netzarim e Kfar Darom. Ma la realtà in mutamento nel paese e nel mondo mi hanno imposto un cambiamento di posizione. Non possiamo restare a Gaza per sempre». Così il premier l’altra sera nel suo discorso televisivo alla nazione sul ritiro da Gaza. Sharon è dunque cambiato? Il superfalco, il generale di Suez, l’uomo di Sabra e Chatila ha lasciato il posto al fautore di pace? L’interrogativo sembrerebbe corrispondere a un vecchio cliché, quello secondo cui solo un “uomo forte” può fare la pace imponendo le necessarie condizioni e rinunce. L’esempio più classico è quello di De Gaulle e dell’Algeria; ma per restare al contesto israelo-palestinese, a fare la pace con l’Egitto fu Beghin, l’ex terrorista degli anni ’40, e a firmare gli accordi di Oslo con Arafat fu Rabin, il generale vincitore di tutte le guerre di Israele, l’uomo che aveva ordinato di spezzare le ossa ai ragazzi dell’Intifada. Sharon avrebbe dunque da questo punto di vista tutte le carte in regola, ancora più di Beghin e di Rabin. Ma non sempre le vicende della storia possono essere ridotte alla meccanica applicazione di cliché precostituiti, meno che mai quando ci sono in ballo personalità ingombranti come quella, appunto, di Ariel Sharon, “Arik” per gli amici e gli ammiratori.
Da un lato può apparire un personaggio anche troppo facile da decifrare, impulsivo e irruento, travolgente come un bulldozer e privo di scrupoli nel perseguimento dei suoi obiettivi (basta ricordare come ingannò platealmente Beghin e l’intero governo nel 1982, quando nascose la sua decisione di invadere il Libano in profondità, fino a raggiungere Beirut); e questi sono stati i tratti caratteristici della sua “brillante” carriera di militare. Nato in Palestina nel 1928, non ancora 25enne era già al comando di un reparto di élite, la Unità 101, specializzata nelle rappresaglie contro i paesi vicini, e come tale diresse nell’ottobre 1953 l’attacco al villaggio giordano di Qibyia dove furono uccisi 68 civili; nella guerra del 1967 fu comandante di reparti corazzati; negli anni successivi organizzò con durezza spietata la repressione anti-Olp proprio a Gaza.

Della guerra dell’ottobre 1973 concepì e diresse l’ardito attraversamento del Canale di Suez arrivando fino al chilometro 101 della strada per il Cairo; passato (almeno formalmente) alla politica come ministro della Difesa, fu l’artefice dell’invasione del Libano del 1982 e nel settembre di quell’anno dette via libera alle milizie falangiste nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, nonostante gli inviati americani Draper e Habib lo scongiurassero di non farlo; costretto dal verdetto della commissione di inchiesta sulla strage a dimettersi dalla difesa, fu comunque nei successivi governi tenace fautore della colonizzazione dei territori occupati (come ricorda lui stesso nelle parole citate all’inizio); e infine fu ancor lui, con la provocatoria passeggiata sulla spianata delle moschee nel settembre 2000, a dare il colpo di grazia alla pace di Oslo e a innescare la seconda Intifada.

Ma allora ecco ritornare l’interrogativo che ci siamo già posti: a questo Sharon che abbiano descritto è lo stesso che ha deciso in ritiro da Gaza e che parla oggi di Stato palestinese (anche se resta da vedere che cosa intenda realmente per Stato)? Evidentemente sì, l’uomo è lo stesso ma – per dirla con le sue parole – sono gli eventi che lo hanno costretto a cambiare. Rabin, lo ricordiamo tutti nelle immagini in Tv, firmò la pace con Arafat ma esitava, quasi con ripugnanza, a stringerli la mano. Anche Sharon mostra oggi di muoversi, per così dire, in stato di necessità, e lo fa con quella irruenza, quella determinazione e quella spregiudicatezza che gli sono caratteristiche. Per quattro anni ha perseguito una politica di scontro frontale, anzi di guerra a oltranza senza esclusione di mezzi, contro i palestinesi e l’Anp; il risultato è che non solo non ha dato agli israeliani quella sicurezza che aveva loro promesso quando fu eletto ma ha portato il paese a una crisi economica senza precedenti nella sua storia. A questo punto proprio la sua esperienza di militare gli ha probabilmente fatto capire di essersi infilato in un tunnel senza uscita; e la scomparsa del suo nemico storico Arafat gli ha dato la possibilità di cambiare strada senza perdere la faccia. Ma nessuno sa con chiarezza – ecco l’altro lato della sua personalità – che cosa avesse davvero in mente decidendo il ritiro unilaterale da Gaza. Non certo la pace come la intendono i palestinesi e come la intendono le risoluzioni dell’Onu; ma piuttosto, o molto probabilmente, la necessità per così dire di limitare le perdite, di rinunciare a Gaza liberandosi di un peso e dando una immagine, appunto, di pace per guadagnare tempo e consolidare comunque le posizioni in Cisgiordania, anche alla luce dei rivolgimenti che la politica Usa sta determinando nella regione. Lo Sharon di sempre, insomma, aggiornato alla complessa e drammatica realtà del 2005. Chissà come sarà lo Sharon del 2006.