«E’ successo il 28 marzo. I soldati sono entrati in casa intorno alle cinque del pomeriggio ed hanno spinto mia madre, me e miei fratelli e sorelle, Hanan (15 anni), Hamad (16 anni) e Hamze (6 anni) nella mia stanza. Poi sono tornati la sera e mi hanno presa. Mia madre si è messa a urlare ed ha cercato di tenermi con sé. Mi hanno portata fuori e mi hanno chiesto in quale casa si nascondevano gli shebab, (giovani miliziani). Uno dei soldati parlava l’arabo. Io ho detto che non lo sapevo. Mi ha detto che ero una bugiarda. Poi ho dovuto indicargli le case vuote. Era buio, non si vedeva niente. Loro avevano le lenti verdi. Mi hanno fatto camminare davanti. Poi mi hanno fatto entrare per prima dalla porta della casa vuota. Il cuore mi batteva forte. Avevo paura che aprendola sarei morta perché mi avrebbero sparato. Dietro per fortuna non c’era nessuno».
Ha solo 11 anni Jihan Dadush, capelli lunghi legati da un fermaglio, carnagione chiara jeans e sandali ai piedi. Non dorme bene dal giorno in cui suo malgrado è diventata “scudo umano”, durante 48 ore di incursione militari continuate dell’esercito israeliano (Idf) nella città vecchia di Nablus, roccaforte delle Brigate Martiri di Al Aqsa, braccio armato di Fatah. Quella mattina suo padre Nimr, che lavora in un ristorante, era stato portato al check-point di Hawara come tutti gli altri uomini sotto i 45 anni, per essere interrogato al fine di ottenere informazioni sui nascondigli dei miliziani per poi essere rilasciato a mezzanotte. “Non riesco a dimenticare” racconta Jihan, che abbiamo incontrato nella sua casa di Hosh el Atout nel quartiere Yasmini della città vecchia della città della Cisgiordania, dove le case di pietra sono fatte di cunicoli che si aprono in stanze dai soffitti a volta. Tra le strade del centro si vedono rudimentali blocchi fatti di sassi e lamiera con cui gli uomini delle brigate, chiamate dagli abitanti “la resistenza” cercano di ostacolare l’avanzata dei soldati di Tsahal. La vicenda della piccola Jihan non costituisce un caso isolato a Nablus. A fine febbraio scorso i militari dell’Idf hanno bussato alla porta di Sameh Amira, 24 anni. «Mi hanno fatto camminare davanti mentre cercavano persone per le case della via Haifa, ma non abbiamo trovato nessuno. Poi mi hanno portato ad Hawara (check-point, n.d.r.)».
Sameh racconta che poco prima che tutto questo succedesse era stato rilasciato dopo tre mesi di arresto in regime di “detenzione amministrativa”, senza formalizzazione di accusa. Prima del suo arresto lavorava come operaio in una fabbrica di un insediamento israeliano della zona. Per questo era in possesso di un permesso di lavoro su carta magnetica che occorre per i controlli e gli spostamenti. Quando è stato rilasciato il permesso era scaduto ed era in attesa del rinnovo. Quando a fine marzo è stato usato come scudo umano è stato filmato da un video reso pubblico ad aprile dall’agenzia di stampa AP. Oggi Sameh è convinto che per questo non avrà mai più il permesso di lavorare per i coloni israeliani. Ora spera di andare all’estero perché a Nablus «non c’è futuro».
Le incursioni in diverse zone della Cisgiordania e Gaza dello scorso fine settimana in cui sono stati uccisi 9 palestinesi (due a Nablus) tra cui un ragazzino 12enne ed una ragazza di 17, hanno portato alla revoca della tregua con Israele da parte del braccio armato di Hamas, smentita e ristabilita subito dopo dal governo di unità nazionale palestinese che ha mostrato un atteggiamento teso ad abbassare la tensione. Posizione analoga a quella del governo israeliano che dopo la rivendicazione del lancio di oltre 30 razzi da Gaza verso Israele (dove risulta ne siano caduti 8) da parte del braccio armato di Hamas, ha stabilito di non procedere nell’immediato ad un’operazione di terra nella Striscia. Essenziale per il mantenimento della tregua stabilita nel novembre scorso, l’intervento del General-maggiore egiziano Burhan Hammad, in seguito al quale i portavoce delle fazioni armate palestinesi hanno ieri dichiarato che si asterranno dal lancio di razzi da Gaza, minacciandone la ripresa davanti alla prosecuzione delle incursioni dell’Idf in Cisgiordania. Che non si fermano. Giovedì scorso a Nablus, secondo fonti giornalistiche palestinesi, l’esercito israeliano ha arrestato Jihad Azzam, 15 anni, Mujahid Hussein, 16 anni, Alaa Hafiz, 26 e Hashim Samih 23. L’uso di civili come scudi umani è vietato dal 2005 da una sentenza della Corte Suprema israeliana. Secondo Avichay Sharon, 25, ex comandante israeliano ed esponente dell’organizzazione “Breaking the Silence” (rompere il silenzio), organizzazione composta da ex soldati che denunciano le pratiche illegali dell’Idf nei Territori palestinesi occupati, si tratta di una pratica ancora diffusa, mentre per Jessica Montell, direttrice dell’organizzazione israeliana per i diritti umani B’Tselem, a tale violazione di legge, oltre che etico-morale, raramente segue la comminazione di sanzioni. La diffusione di un video in cui sono mostrati palestinesi-cudi umani ha portato il 13 aprile alla sospensione di un comandante militare israeliano. L’inchiesta non si è ancora conclusa.