Come cambierà la politica in Occidente con gli attacchi terroristici agli Stati Uniti, e con la campagna militare contro i Paesi che ne proteggono i responsabili? Questa domanda si pone sempre più frequentemente, e del tutto a ragione. Vi sono alcuni aspetti della questione che si sono rivelati molto chiari sin dalle prime ore dopo l’attacco dell’11 settembre. Tra questi aspetti, che l’Occidente – e in particolare gli Stati Uniti, il Paese finora colpito – avrebbero visto l’equilibrio tra libertà individuali da un lato, e sicurezza dall’altro, spostarsi a favore di quest’ultima. Ciò si è puntualmente verificato, con l’adozione da parte del Governo e del Congresso americano di tutta una serie di misure che di fatto restringono la sfera della segretezza costituzionalmente garantita ai cittadini. Per quanto sia intellettualmente attraente, e per quanto sia moralmente desiderabile l’ideale liberale per il quale la sicurezza deve sempre venire perseguita entro la rigida logica della libertà individuale, la realtà è che vi è quasi sempre un trade-off tra le due.
Per comprenderlo, basti pensare alla questione della segretezza della corrispondenza. La proibizione nei confronti del potere politico di controllare la corrispondenza è stata una delle conquiste fondamentali del costituzionalismo liberale del Settecento e ancora della prima metà dell’Ottocento, non meno importante della garanzia della libertà di stampa. Ma se le poste possono venire utilizzate per diffondere malattie letali, quale reale alternativa vi è alla sostanziale sospensione della segretezza della corrispondenza? E quale forza il principio che la fonda potrà trovare ancora nella coscienza della maior et sanior pars dei cittadini delle democrazie liberali? Qui ci troviamo davanti a una situazione che è completamente diversa da quella della garanzia dei diritti individuali di fronte alle esigenze di combattere la criminalità comune.
La questione si è posta da qualche anno nei confronti della volontà da parte dei Governi (in primo luogo di quello americano) di proibire la crittografia in Internet, nel timore che essa faciliti la criminalità. In molti si sono opposti a questa ipotesi, con l’argomento che non deve essere l’espressione delle libertà dei cittadini a venire limitata, ma sono i comportamenti criminali che devono venire repressi attraverso mezzi tecnologicamente più potenti. L’argomento è perfettamente valido, almeno per un liberale. Ma è dubbio che esso mantenga la sua forze di fronte alla realtà che Internet viene usata per organizzare attentati che provocano migliaia di morti.
Sul piano intellettuale, ciò che è successo e sta succedendo induce a ripensare alcune idee diventate molto diffuse negli ultimi vent’anni. Tra queste idee vi è quella che la politica delle società post-moderne andasse inevitabilmente verso una de-territorializzazione delle sue categorie fondamentali. L’apertura dei mercati, il trasferimento di modelli giuridici da un Paese all’altro (tipicamente, dai Paesi anglosassoni verso quelli del l’Europa continentale e asiatici), l’affermarsi di organismi sovranazionali come la Wto, o di organismi non governativi e non nazionali che hanno assunto una rappresentanza diretta di interessi diffusi tra i cittadini di molti Paesi diversi, ha indotto a credere che la natura stessa della politica fosse cambiata. Non a caso il tema forse più interessante della discussione politica di questi anni è stato quello del se, ed eventualmente come, il sistema delle decisioni democratiche, che è nato e si è sviluppato all’interno della logica dello Stato-nazione, potesse continuare a funzionare nel mondo della globalizzazione culturale e politica. Gli attacchi agli Stati Uniti fanno comprendere come l’idea di una sostanziale e progressiva de-territorializzazione della politica in Occidente fosse errata. Gli eventi non accadono nel cyberspazio, ma in tempi e luoghi fisici. L’attacco terroristico non è stato portato a delle funzioni, ma a un territorio, nel quale vivevano persone concrete. E la risposta fondamentale è un’azione fisica nei confronti di altri territori, non una riaffermazione di funzioni astratte. La celebre definizione di Max Weber dello Stato come monopolio legale della violenza su di un dato territorio riacquista una validità quasi immediata. Più in generale, è la dimensione della politica come luogo di decisione sull’esercizio dei poteri regali degli Stati a riacquistare la sua centralità. Si è spesso affermato che nei tempi di guerra è la politica a guidare gli Stati, mentre nei tempi di pace questo ruolo è preso dal diritto e dai giudici. Se vi è una sostanziale verità in questa tesi, un’altra delle conseguenze di ciò che è iniziato l’11 settembre è che vi saranno mutamenti importanti nella società americana, e forse anche in quelle europee. Gli Stati Uniti sono un Paese dove il diritto in tutte le sue forme, dalla mediazione alla sanzione, ha assunto un ruolo assolutamente inedito per estensione e per capacità di dirigere i comportamenti economici.
Uno degli aspetti più noti, e spesso anche folkloristici, ne è la logica dei cosiddetti punitive damages applicati nei confronti delle società commerciali accusate di incuria nei confronti dei diritti e della sicurezza dei propri clienti. Finora l’opinione pubblica americana sembra essere stata favorevole a questa logica. Non vi è da dubitare che qualche vittima dell’attacco biologico cercherà adesso di ottenere risarcimenti miliardari da parte delle poste americane. Ma l’opinione pubblica sarà anche in questo caso favorevole? E il potere politico non tenterà di contrastare queste azioni, rivendicando la preminenza della politica come dimensione nazionale e collettiva, contrapposta agli interessi particolari di alcuni, sfortunati cittadini? La risposta a queste domande potrà essere data soltanto dal corso degli eventi. Ma vi sono domande alle quali si può rispondere senza attendere gli eventi, perché sono basate su confusioni intellettuali.
Tra queste domande la più ricorrente è se il terrorismo e la guerra non significhino la fine del liberismo a livello nazionale e internazionale, perché la sicurezza interna ed esterna richiede l’intervento della mano pubblica, e questa deve essere adeguatamente finanziata. La risposta è che nessun liberista si è mai opposto al fatto che lo Stato garantisca la sicurezza dei cittadini, e al fatto che esso abbia bisogno di risorse adeguate per farlo. Il liberismo significa opporsi a che lo Stato svolga funzioni che sono diverse da quelle sue regali. Sul piano della realtà storica, i Governi che maggiormente hanno voluto e saputo garantire la difesa militare dei propri Paesi sono stati proprio quelli più liberisti. Negli ultimi vent’anni basti pensare a Reagan e alla Thatcher per rendersene immediatamente conto, mentre i Governi di stampo socialista hanno sistematicamente prodotto allo stesso tempo l’espansione della spesa pubblica e la riduzione delle spese per l’apparato militare. Il che, evidentemente, non può oggi non far riflettere la sinistra di tutto il mondo occidentale sull’adeguatezza dell’idea di politica che la guida.