Stati uniti, la promessa mancata

Ha fatto benissimo Rossanda a definirsi antiamericana: lo stesso vale per tanti di noi. Il che non significa ostilità verso un popolo: anche se condivido pure la critica alla maggioranza degli statunitensi che si credono al di fuori delle conseguenze di quel che il loro governo fa. Penso come lei che l’opposizione sia rivolta ad uno Stato che è la massima potenza dell’imperialismo capitalistico e da molti decenni il principale responsabile della sofferenza, della guerra e del terrore distribuiti nel mondo: e gli orrendi attentati dell’11 settembre non possono occultare tale realtà. Le stragi, anzi, serviranno agli Usa per lanciare la terza e ben più ampia guerra del decennio, una guerra globale e permanente, che renderà l’antimperialismo e l’antibellicismo una priorità assoluta per tutti (altro che “ostracismo”: tali parole torneranno di estrema attualità, mentre spariranno tante altre “pret-a-porter”. E si riparlerà di ideologie, centralità del conflitto tra Capitale e Lavoro, e invece di “antiglobalizzazione” o “antiliberismo” – soprattutto dopo la “cura” Greenspan e la riscoperta mondiale di quanto sia utile lo Stato come “capitalista collettivo” anti-crisi – si riprenderà a dire “anticapitalismo”).

Perché, come era già scritto nella guerra del Golfo, l’imperialismo Usa ha scelto la guerra come “programma di fase”. Se, infatti, esso è potentissimo militarmente, economicamente siede su un vulcano, non avendo mantenuto le promesse di espansione mondiale della produzione capitalistica, globalizzandola sul serio per non più di un quinto dell’umanità. Un meccanismo produttivo dal corpo enorme e dalle gambe fragilissime sforna sempre più merci per sempre meno compratori, con sempre più venditori dell’enorme mole di prodotti senza acquirenti: ed una catastrofica crisi da sovrapproduzione è quotidianamente in agguato. In una situazione così instabile, ogni barriera politica o economica frapposta da un paese alla circolazione delle merci e del denaro secondo i tempi e i modi dei “padroni del mondo” è considerata nefasta, esattamente come ieri il “socialismo reale” e quindi da abbattere. La logica imperialistica Usa – e della “cordata” di Stati ad essa subordinati – è : “aprite le porte della vostra società e della vostra economia sottomettendovi alle nostre insindacabili regole, oppure ve le sfondiamo con tutti i mezzi economici, politici o quando ciò non basti, militari, fino all’atomica”.
Dunque la guerra sarà l’elemento permanente del dominio ogni volta qualcuno, Iraq o Jugoslavia, Iran o Afghanistan – e domani una Russia risorta o la Cina o magari un’Europa politicamente unita e vogliosa di mettere in discussione l’egemonia Usa – andrà controcorrente rispetto al potere Usa, che non è più obbligato, come ai tempi dell'”equilibrio bipolare”, a fare mediazioni con chi interpone ostacoli al “libero fluire” dei capitali e delle merci. Altro che lotta al terrorismo! Ma anche: altro che Impero pacificato e unificato, senza alternative (se non la defezione, l’esodo), senza contrasti interni, né ostacoli, in mano ad un “coordinamento di multinazionali” che bypasserebbero gli Stati! L’imperialismo Usa, nonostante il dominio militare, è così fragile sul piano economico da temere non solo un nuovo ’29 ma anche l’afasica politicamente ma agguerrita economicamente Europa, e la potenza crescente della Cina e la possibile rinascita della Russia, così come il Giappone: e in tale instabilità, persino le emergenti borghesie nazionali arabe (di cui gli afgani o i Bin Laden sono il vessillo estremo, ma anche una potenziale alternativa radicale) costituiscono un ingombro preoccupante. Dunque, l’apparente delirio bellicista altro non è che l’assillo preveggente di chi vuole strozzare tutti gli avversari nella culla, novello Erode che non intende correre rischi, finchè vale la completa egemonia militare post-crollo Urss. E c’è infine la sempre valida “guerra come business”, la sostituzione, che in questo secolo ha sempre funzionato, del “welfare” con il “warfare”, i massicci spostamenti di spesa statale dall’assistenza sociale alla spesa militare, come volano di una rilancio economica di cui gli Usa hanno tremendo bisogno.

Se così è, ci si pone l’obbligo storico di contrastare la tremenda corrente bellicista che vuole abbattere ogni ostacolo e nei nostri paesi annullare ogni conflitto sociale che accentua la fragilità economica capitalistica. Fermare la guerra, impedire che l’Italia vi partecipi, ma anche rilanciare il conflitto sociale e difendere ogni spazio democratico e di libertà collettive e individuali: questo è il dovere prioritario del movimento di Genova e di tutti gli anticapitalisti e pacifisti. Ma essi devono dimostrarsi rapidamente all’altezza di tale compito, ora che appare superato lo sbandamento dovuto all’orrore per gli attentati, scendendo in piazza dappertutto al primo segnale di guerra e lavorando poi per una mobilitazione permanente che comprenda anche uno sciopero generale contro la guerra: ed in questo senso la manifestazione di Napoli è stata un segnale assai confortante. Lo sdegno per lo stragismo come metodo di lotta non ci deve impedire di ricordare che centinaia di migliaia di morti iracheni, jugoslavi, palestinesi o kurdi non hanno suscitato in Occidente nemmeno un millesimo dell’orrore provocato dal crimine delle Twin Towers; che la Nato resta il principale agente di morte e di terrore nel mondo e che essa va sciolta o comunque l’Italia non deve farne parte; e che non è il movimento di Genova a doversi “dissociare” da Bin Laden o dagli afgani ma la Nato che li ha allevati nella comune logica del terrore e della guerra. Perchè, mentre qualcuno ritiene inopportuno ribadire la richiesta di uscita dell’Italia dalla Nato o le proteste anti-Usa, ci capita di trovare qualche centinaio di suore statunitensi che manifestano contro la guerra proprio sotto l’ambasciata Usa.
A fare da freno non sono cioè i cattolici coerenti, i quali spesso hanno un’intransigenza pacifista che tanti “sinistri” si sognano; ma gli orridi cascami di quella “cultura di guerra” e filo-Nato che l’ex-sinistra di governo ha disseminato a piene mani ai tempi della “guerra umanitaria”. E a tal proposito ci pare indispensabile che i promotori della Perugia-Assisi, alla quale si deve partecipare in massa, ci evitino, prendendo chiaramente posizione contro la guerra e la partecipazione dell’Italia ad essa in qualsiasi forma, di farci ritrovare nelle prime file (come già accaduto con il D’Alema condottiero della guerra alla Jugoslavia) coloro che sostengono “l’uso della forza” Nato (già: perché rompere le vetrine a Genova è la quintessenza della violenza, mentre bombardare paesi, magari con l’atomica, è usare la forza!).