Presentiamo di seguito il documento prodotto dal Forum sindacale Cgil sulla previdenza pubblica. È il risultato dei lavori (relazione introduttiva di Graziano Fracassi e interventi) di un incontro pubblico, al quale hanno partecipato sindacalisti ed esperti, organizzato a Bologna il 19 dicembre scorso. (red.)
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PREMESSA
A premessa di ogni discussione sulla sostenibilità del sistema previdenziale vanno indicate con chiarezza tre cose:
• quale è l’obiettivo che ci si prefigge in termini di tasso di sostituzione e in generale come livello generale di prestazioni che si considerano accettabili ( socialmente sostenibili) per i futuri pensionati
• distinguere stabilmente e inequivocabilmente la spesa previdenziale dalla spesa per prestazioni assistenziali oggi in carico all’INPS e per questo atto assimilate impropriamente a spesa previdenziale.
• liberare la questione della % di spesa previdenziale sul PIL dai pregiudizi ( o da giudizi politici ) di varia origine e facendo i conti comparando grandezze comparabili. Per esempio come dimenticare che la spesa pensionistica in Italia è conteggiata al lordo e che quindi circa 1,5 punti di pil tornano allo stato come tasse e quindi come entrate?
Con ciò si possono porre le basi per individuare con precisione e senza trucchi quali sono i termini del problema (dei problemi) da risolvere e quindi discutere con maggiore chiarezza di quale sostenibilità finanziaria parliamo, relativamente a quali prestazioni e a quale platea di beneficiari e di contribuenti (o assicurati se si preferisce).
Chi dipinge un sistema al collasso bara sapendo di barare, vuol fare cassa sulla previdenza perseguendo una politica di tagli allo stato sociale e vuole spingere verso la previdenza privata.
Tutte le stime catastrofiste degli anni passati sono state clamorosamente smentite. I dati reali sono che già oggi l’età media di pensionamento reale in Italia supera i 60 anni; le pensioni italiane sono tra le più basse d’Europa e la Spesa Previdenziale in rapporto al PIL ampiamente contenuta e tendenzialmente in tenuta dopo i 3 interventi dal ’92 e che lo stato patrimoniale dell’Inps è da anni ampiamente positivo ( nonostante il saccheggio delle sue sedi fatto dal Centro destra ).
Come mai il programma dell’Unione in materia previdenziale è già carta straccia? Non ci parlava certo il linguaggio ossessivo dell’aumento dell’età pensionabile e della crisi del sistema!
Certamente non tutti i Fondi si presentano nelle stesse condizioni ma nessuno può dire che il Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti sia in seria difficoltà; anzi la partita complessiva, comprensiva delle prestazioni temporanee, è strutturalmente in attivo.
Semmai c’è da dire che si fa solidarietà al rovescio verso i fondi dalle prestazioni più elevate ( si veda per tutti il Fondo ex INPDAI )
Venendo al rapporto fra previdenza pubblica e complementare la questione di quale equilibrio si intende mantenere fra le due non è né matematico né oggettivo, ma discende da valutazioni del tutto soggettive e in buona misura politiche.
Se infatti assumiamo che la Previdenza pubblica a ripartizione deve garantire un tasso minimo di sostituzione delle retribuzioni intorno al 60-65% questo livello deve diventare un vincolo nel determinare l’equilibrio finanziario del sistema e conseguentemente nella individuazione delle risorse necessarie a garantire questo obiettivo.
La discussione della Cgil nel percorso delle riforme previdenziali si era attestata intorno a questo livello di prestazione della pensione pubblica, individuandolo come l’indice di riferimento, come il confine tra le due forme previdenziali, quella pubblica (garantita o per meglio dire a prestazione definita) e quella complementare (che ha un margine di incertezza, non è garantita dallo Stato e quindi si configura a contribuzione definita).
A meno di non ritenere sostenibile, o addirittura auspicabile, che il tasso di sostituzione della previdenza pubblica scenda fino o addirittura sotto il 50%, occorrerà porsi la questione di eventuali risorse aggiuntive da immettere nel sistema innanzitutto per garantire un tasso medio di sostituzione stabilmente intorno al 60-65%, a cui aggiungere forme di previdenza complementare (di cui dobbiamo valutare qualità, affidabilità e coerenza con le finalità previdenziali e sociali).
La discussione sulla opportunità di destinare parte del Tfr a rafforzare la quota di previdenza pubblica si colloca in questo contesto.
Se pensiamo ad un assetto finanziario e normativo della previdenza pubblica tale da garantire a tutti una prestazione pensionistica intorno al 60-65% di tasso di sostituzione senza bisogno di ulteriori contributi, allora ipotizzando un suo possibile uso, in tutto o in parte, per ottenere un livello più alto di pensione pubblica. Non possiamo però escludere che con il sistema contributivo, ancorché migliorato, ci sarà probabilmente una parte non marginale di lavoratori a cui, con i soli contributi obbligatori, non sarà garantito il 65% dell’ultima retribuzione. In questi casi è necessario che i lavoratori possano versare contributi volontari per avere una pensione INPS più alta decidendo, se vogliono, di utilizzare a questo fine anche il tfr
L’argomento migliore contro la tesi dello scippo del tfr è evitare che il Tfr si trasformi in un finanziamento di previdenza sostitutiva! Ma oltre al danno saremmo alla beffa se oltre a dovere finanziare col tfr una previdenza sostitutiva, ci fosse anche l’obbligo di farlo investendo solo nel mercato finanziario, con tutti i rischi che ciò comporta sulla certezza della prestazione previdenziale.
Anche la questione del contenimento della spesa previdenziale ad una percentuale costante del pil deve essere meglio posta:
• Che la spesa previdenziale possa crescere (o diminuire) è funzione del rapporto fra crescita della platea dei pensionati e crescita del PIL ( e questa dovrebbe essere innanzitutto l’obiettivo ) ma è dubbio che si possa teorizzare che la variabile indipendente sia x%PIL di spesa previdenziale anche se da questa dovesse derivarne una pensione al di sotto della soglia di povertà. A dimostrazione di ciò vale citare la posizione di chi usa l’argomento dell’eccessiva spesa previdenziale per sostenere la necessità di far crescere la previdenza privata e complementare, cioè attraverso la spesa privata aumentare comunque la quota di ricchezza nazionale (di PIL) da destinare a spesa previdenziale ( allora può crescere purchè sia privata…).
• Un variante più precisa di questa discussione sarebbe quella che individua una percentuale massima sostenibile di spesa pubblica %su PIL da destinare alle prestazioni previdenziali e sociali, considerando ininfluente o addirittura positivo che aumenti la spesa privata e i fondi a capitalizzazione. In questo caso dovremmo registrare che la spesa sociale nel suo complesso è in Italia ben al di sotto dei livelli massimi europei nonché della media UE- anzi il fanalino di coda secondo Eurispes 2006 – e, in ogni caso una tale discussione non può prescindere da una distinta valutazione delle diverse poste della spesa sociale, non solo distinguendo fra spese per assistenza e previdenziali pure, ma anche analizzando nell’ambito della spesa previdenziale la ripartizione del carico contributivo fra i diversi soggetti e il rapporto fra contributi e prestazioni dei diversi fondi. Una volta risolto il problema di equiparazione fra contribuiti e prestazioni previdenziali dei diversi fondi si può decidere di colmare deficit altrimenti incolmabili distribuendo in modo equo la quota che è ragionevole rimanga a carico del sistema previdenziale in senso proprio e per il resto decidendo quanto debba essere coperto dalla spesa pubblica attraverso la fiscalità generale.
• Infine se si considerano i contributi previdenziali di aziende e lavoratori come una quota di PIL da destinare alla spesa previdenziale, forse sarebbe opportuno valutare l’ipotesi che il finanziamento del sistema previdenziale non sia impostato solo in base al numero di lavoratori, fatto questo che esclude dal calcolo la quota di produttività che non viene ridistribuita ai salari, ma prenda in considerazione parametri relativi all’intero valore aggiunto prodotto o imputabile alla singola impresa. Cioè ci si interroghi di come la produttività del sistema possa finanziare la spesa previdenziale e sociale: è un argomento che contrasta le ragioni di chi sostiene ossessivamente che il problema vero è l’innalzamento dell’aspettativa di vita mentre ignora che è invece la ricchezza prodotta nell’arco della vita il dato vero, almeno in un sistema a ripartizione quale continua ad essere quello italiano.
La vera discussione è, quindi, fra chi vuole mantenere e migliorare la qualità e la stabilità di un sistema previdenziale pubblico a ripartizione e ricostruire un nuovo patto fra generazioni, e chi pensa che la spesa previdenziale debba spostarsi tendenzialmente nel mercato finanziario e contribuire per questa via alla valorizzazione del capitale o alla crescita dell’economia.
Considerazioni di carattere generale:
Innanzitutto c’è un punto di equilibrio evidente:
o i lavoratori stanno tutti ( retributivi e contributivi ) dentro un rapporto equilibrato e credibile tra il versato ( la contribuzione ) e il restituito ( la prestazione ) collocando sulla fiscalità generale le altre poste, dall’assistenza agli ammortizzatori sociali agli interventi sul mercato del lavoro e sulla contribuzione figurativa, oppure c’è il rischio che si raggiunga il punto di rottura e siano i lavoratori stessi a volersi chiamare fuori dal sistema. Se va in crisi la credibilità e la vantaggiosità di un sistema di previdenza pubblica va in crisi il concetto stesso di previdenza sociale. Ecco perchè, oltre ad altri motivi, bisogna contrastare la spinta a liberare risorse “previdenziali” per i mercati finanziari.
Secondariamente va detto che l’intervento in materia previdenziale è interno ad un ragionamento più generale di Stato Sociale, Mercato del Lavoro, Politiche di sviluppo ed Espansive.
E’ evidente che ogni incentivo alla “buona occupazione” e ad aumentare il tasso di attività è di per se una condizione di miglioramento del sistema previdenziale.
Ma anche la “ buona contrattazione “ salariale e normativa fa una politica previdenziale adeguata: tutto il contrario di quello che ha in mente la Confindustria.
Così pure, come è evidente, la lotta all’evasione ed all’illegalità e la regolarizzazione degli immigrati.
La questione fondamentale è, quindi, che bisogna uscire da un’impostazione difensiva e quindi va pensata una vera piattaforma sulla previdenza che parta dai bisogni dei lavoratori, che sulla previdenza in 15 anni hanno dato molto, anzi moltissimo, e quindi da obiettivi precisi che uniscano i lavoratori e i lavoratori con i pensionati.
Per fare una piattaforma ci vogliono i tempi di costruzione delle proposte, del confronto e del voto vincolante di quanti rappresentiamo in un quadro auspicabilmente unitario e collegandosi alle rivendicazioni sindacali contro la precarietà.
E ci vogliono iniziative di sostegno e di mobilitazione all’occorrenza.
Il memorandum, tirato a destra e a manca ora come semplice agenda di lavoro ora come accordo di merito, detta in ogni caso tempi troppo stretti e, per di più, opera in una fase in cui invece decolla il Decreto Maroni sulla Previdenza Complementare, non consentendo ai lavoratori di avere un quadro chiaro e complessivo.
La vera data limite è semmai l’entrata in vigore del gradone prevista dalla L.243.
Sarà bene ricordare allora ai lavoratori che la scelta di tenersi il TFR maturando è una scelta di cautela e, comunque, sempre reversibile.
In sostanza non si vede come ci possa essere confronto senza piattaforma e piattaforma senza consultazione vincolante dei lavoratori e pensionati.
Alcuni spunti programmatici come contributo al dibattito.
Prima di entrare nel merito c’è un punto da chiarire nel confronto tra di noi e poi con il Governo: l’eliminazione del gradone e il ripristino delle 4 finestre d’uscita e dell’uscita libera per i 40 anni sono condizioni prioritarie, sono punti non negoziabili ( fra l’altro a pieno titolo nel programma dell’Unione.)
Nel sistema retributivo va fissato a 57 anni e 35 ( quota 92 ) di contributi oltre ai 40 il requisito legale con il calcolo pensionistico corrispondente.
Nel sistema contributivo vanno ripristinati i 57 anni con i 5 di contributi eliminando il vincolo di 1,2 della sociale ma limitandosi all’1( art 1 comma 20 L.335 )
Da questa premessa ragioniamo allora di come migliorare la Dini e di come affrontare alcuni nodi che possono anche contribuire ad un maggior equilibrio del sistema e ad una maggiore giustizia sociale.
La volontarietà nelle uscite e gli incentivi alla permanenza al lavoro sono il terreno giusto.
Abolire il Bonus della l. 243 ed introdurre una maggiorazione nel calcolo per ogni anno oltre quota 92 potrebbe essere una strada interessante ed appetibile per i lavoratori.
Ipotizzare disincentivi in termini di taglio del rendimento o di trasformazione nel calcolo contributivo, come fa la L.243 per le donne, è inaccettabile sul piano del merito e nega valore legale al requisito stesso.
Così pure il tema dei lavori usuranti è tema troppo serio per essere strumentalizzato per altre finalità.
Il riferimento non può che rimanere quello della tabella A dei lavori usuranti del dlgs 374/93 seppure il mercato del lavoro si è modificato.
E’ difficile pensare che si riesca a fare in pochi mesi quanto non è stato fatto in 14 anni.
Ma è evidente che i diritti dei lavoratori più esposti vanno difesi di per sé, non invocati per legittimare l’innalzamento dell’età pensionabile per tutti.
Il vero punto di partenza è la garanzia del requisito a 57 anni e la volontarietà in uscita con il calcolo pieno. Sul resto si lavori.
In questo ambito va approfondito il tema dell’invecchiamento attivo e dello stesso cumulo
Il rischio vero è che convivano pensioni di anzianità con lavoro dei pensionati non assicurato; una vera e propria fonte di lavoro nero e di blocco del mercato del lavoro.
Ci vogliono decisioni chiare. O si accetta che ci sia il cumulo, con un riordino della normativa, oppure lo si impedisce per legge per tutte le pensioni di anzianità, senza eccezioni.
Se si estende in modo generale il cumulo si da un senso di semplificazione ed equità al sistema ma saltano le coerenze : se si vuole scoraggiare il pensionamento volontario con incentivi, il cumulo è un serio disincentivo perchè in un colpo solo si incassano pensione e lavoro.
Andrebbe fatto invece un ragionamento sulle attività sociali dei pensionati e sulla transizione dal lavoro alla pensione: le collaborazioni anche occasionali in ambito sociale possono essere un legame forte fra l’anziano e la società; così pure il tema dell’invecchiamento attivo attraverso la formula PT /quota di pensione anticipata o la formula “adotta un giovane Part Time “ è un’ipotesi da approfondire anche se, allo stato, solleva molti dubbi sul reale incentivo da essa rappresentata per il lavoratore e sui rischi di gestione strumentale da parte aziendale.
In ogni caso può essere valutata esclusivamente nell’ambito di una revisione di tutta la vigente normativa del PT.
Ma soprattutto va affrontato il punto decisivo: il calcolo retributivo è una fase transitoria ma il sistema è già contributivo e c’è il documentato rischio di impoverimento delle future pensioni contributive e/o miste.
Si parlava in premessa di un tasso di sostituzione socialmente accettabile.
Il metodo contributivo è intervenuto in un quadro di evoluzione del mercato del lavoro segnato da precarietà, bassi salari, discontinuità contributive, assenza di previdenza integrativa per molti.
Posto che il problema è cambiare il quadro della legislazione del lavoro restituendo centralità al rapporto a tempo indeterminato, non è che il problema dei bassi salari o della discontinuità sia appannaggio solo dei cocopro, degli interinali o dei giovani.
Il salario medio reale dei lavoratori italiani è notoriamente impoverito; le stesse ristrutturazioni aziendali mettono a rischio anche carriere lavorative consolidate in un paese dove, a parole, si vorrebbe far lavorare tutti/e fino a 65 anni ma invece se ne buttano fuori a migliaia dalle aziende dai 45.
Che fare?
Intanto respingendo i tentativi di peggiorare i coefficienti di trasformazione e riaprendo una riflessione su quali sono i coefficienti socialmente sostenibili.
Secondo agendo sulla contribuzione, su tastiere peraltro già affrontate dalla Cgil:
• Totalizzazione libera dei contributi versati
• Attribuzione di contribuzione figurativa e/o riscatto con abbattimenti di costo in favore degli stagionali/ co.co.pro per le interruzioni di committenza/ P.T. verticali etc.
• rivalutazione dei P.T. sotto soglia ( retributivo ) e bonus contributivo ( nel contributivo )
• per scoraggiare i contributi silenti ( quelli che non danno diritto ad alcuna rendita ) alleggerire i costi della P.V.
• rafforzamento degli accrediti figurativi per assenze, congedi parentali, etc che coprano esigenze sociali, familiari, formative…
Terzo valutando altrimenti il problema di assicurare, analogamente al sistema retributivo, una pensione minima finanziata dalla fiscalità generale. ( in tal caso cambia significato la clausola del rapporto con la sociale ).
C’è un punto da riaprire rispetto agli immigrati ed all’esigibilità reale della contribuzione.
La Dini consentiva la riscossione del capitale versato se rientravano in patria senza la possibilità di convenzione internazionale bilaterale.
La Bossi Fini li ha inchiodati – uomini e donne – ad attendere i 65 anni in paesi dove magari la speranza di vita è a 45 anni!!!
La materia è controversa perchè la liquidazione del maturato era l’unica eccezione: motivatamente va detto, perchè la situazione non era comparabile alle altre anche se introduceva una frazione di sistema a capitalizzazione in un sistema a ripartizione.
Rimane, quindi, un punto da affrontare: non si può certo considerare chiusa la partita con la Bossi-Fini: va riaperta una discussione e vanno trovate le soluzioni; e la Cgil dovrebbe essere in prima fila in questa iniziativa.
Per le pensioni in essere va ridefinito un sistema di rivalutazione; l’idea di una rivalutazione una tantum non convince; il sistema posto nella Riforma Amato non ha funzionato e le pensioni si sono impoverite ancor più dei salari.
Il legame con l’inflazione è il riferimento base
Ipotesi integrative potrebbero essere:
• bonus fiscale sul modello del fiscal drag o della no-tax area – ha il vantaggio di porre in capo allo Stato la tutela dei redditi da pensione e caricare i costi sulla fiscalità generale
• riedizione aggancio pensioni/salari ( anche con % più bassa del precedente sistema ) che ha soprattutto il valore solidaristico tra lavoratori e pensionati, anche se costa di più
• paniere “anziani” in aggiunta all’inflazione base
Qui però c’è da riaprire il tema serio della povertà delle reversibilità. Con pensioni già basse pur in presenza di 35 o 40 anni di contribuzione la quota del 60% porta a pensioni di fatto al disotto della sussistenza condannando centinaia di migliaia di pensionati ( per lo più donne ) all’indigenza.
Attenzione a dire però : alziamo tutte le minime.
Le minime non sono tutte uguali. Ci sono quelle da lavoro povero che certamente vanno tutelate e quelle delle gestioni che, spesso, nascondono anche evasione contributiva autoprodotta da artigiani, commercianti e coltivatori diretti. E’ un tema delicato da affrontare e si rischia di fare danni ed ingiustizie se mal gestito.
Le risorse, ci diranno. Il Governo dirà che tutto questo costa, a partire dall’abolizione del gradone.
Intanto va detto che sono stati in realtà realizzati dal ’92 ad oggi risparmi di gran lunga superiori a quelli preventivati!
Nella Finanziaria 2007 hanno già aumentato i contributi!
Hanno trovato le risorse del cuneo contributivo per le imprese!
Il gettito fiscale va oltre ogni più rosea aspettativa al punto che qualche “riformista” pensa di attenuare la curva fiscale nelle aliquote più alte!
Bene, vuol dire che le risorse ci sono, da una parte o dall’altra ci sono; il legame tra la partita della previdenza e la dimensione delle entrate fiscali non può essere aggirato dal governo e prima di qualunque rimodulazione fiscale vanno sostenuti gli interventi sulle poste assistenziali, gli ammortizzatori sociali, la contribuzione figurativa, l’aumento del potere d’acquisto delle pensioni in essere.
Ma poi ci sono partite decisive per le entrate previdenziali che possono derivare da:
• trasformazione delle centinaia di migliaia di co.co.pro in rapporti di lavoro subordinato
• una coordinata e continuativa politica di lotta all’evasione fiscale e contributiva e per la legalità attraverso politiche coordinate tra tutti gli Enti Previdenziali ed il ministero; incentivi alla “buona Occupazione”: soppressione art.8 Legge 30 e Decreto 124; legislazione penale di sostegno ( la depenalizzazione non ha pagato ) per i reati più gravi; procedure più avanzate per accelerare ed ampliare il riscosso dell’accertato; miglioramento della qualità delle visite ispettive; tempestività nella registrazione dei dati; sviluppo delle procedure e delle reti informatiche
• permesso di lavoro per gli immigrati che denunciano il datore evasore o che vengono colti da organi ispettivi su segnalazione o ancora per aziende o famiglie che vogliono regolarizzarsi. E qui il Governo è vergognosamente latitante. In attesa dell’abrogazione della Bossi-Fini, che non arriva, non si attiva alcun reale percorso di modificazione a legislazione vigente: né il tutto né il poco!!!
• politiche economiche, industriali e sociali che cambino al fondo il paradigma di questi anni: lavoro povero, riduzione dei costi del lavoro, scarsa ricerca ed innovazione, liberalizzazioni anche in settori strategici..
Sono apprezzabili le prime iniziative del Governo in materia di lavoro nero e lotta all’evasione contributiva; si tratta di dare respiro e di rafforzare l’iniziativa di vigilanza. Ma bisogna battere reticenze, incoerenze e marce indietro che pericolosamente riaffiorano.
E soprattutto bisogna puntare ad una svolta nella politica economica e nel ruolo dello Stato in economia.
Solo in un ragionamento che guardi al quadro complessivo del sistema previdenziale ed economico si può poi ragionare con calma e serietà, evitando uscite estemporanee ed improvvisate, del riordino degli Enti Previdenziali, delle sinergie possibili, dell’avanzamento organizzativo, di una Governance socialmente connotata e partecipate e perchè no? di scioglimenti e fusioni.
Rimangono al fondo dubbi e preoccupazioni: che il governo abbia in mente altro e che pieghi il memorandum a finalità di puro risparmio e di riduzione strutturale della spesa; che Confindustria consideri il confronto una sorta di triangolazione centralizzata che parta dalle pensioni e che arrivi alla messa in discussione dei CCNL e di un mitico patto sulla produttività che altro non significa che liberalizzazione degli orari; che Cisl e Uil considerino la consultazione dei lavoratori e pensionati un optional.
Il tutto metterebbe la Cgil in una condizione estremamente difficile, schiacciata tra un Governo cosiddetto “ amico” che si rivelerebbe poco amico ed in cerca di alleati in altri lidi ed i nostri lavoratori che rivendicano un legittimo protagonismo rivendicativo.
C’è modo di sfuggire a questo rischio facendo quello che fin dal titolo del Congresso abbiamo rivendicato: riprogettare il paese, con la democrazia partecipata dei lavoratori e pensionati e con proposte di svolta rispetto alle politiche del centro destra.
Documento Forum Sindacale in Cgil
Assemblea 18 Novembre 2006 Bologna