«Sporco negro» si può dire

Dopo ponderata riflessione, la Corte di Cassazione, la nostra più alta istanza giudiziaria, ha emesso l’alta sentenza: «Sporco negro» non è un insulto razzista. Spiega la Repubblica:«Per la Cassazione l’espressione `sporco negro’ – pronunciata da un italiano mentre aggredisce persone di colore alle quali provoca serie lesioni – non denota, di per sé l’intento discriminatorio e razzista di chi la pronuncia perché potrebbe anche essere una meno grave manifestazione di ‘generica antipatia, insofferenza o rifiuto’ per chi appartiene a una razza diversa». Come se una generica antipatia, insofferenza o rifiuto non fosse, appunto già sinonimo di un atteggiamento razzista – specie se accompagnata dall’aggressione e dalle botte. E infatti, se non è un insulto razzista questo, che attribuisce intrinseca sporcizia al colore della pelle («sporco negro», cioè sporco perché «negro»), che cosa lo è? Per quanto mi sforzi di immaginare espressioni peggiori, tali da poter essere riconosciute come razziste dall’alta Corte, non mi viene in mente niente di più conciso, puntuale e offensivo di questa, che associa indissolubilmente un’idea di sporcizia a una presunta identità razziale. La Cassazione spiega che si tratta di razzismo solo in caso di «restrizione o preferenza basata sulla razza, che abbia lo scopo di distruggere o compromettere il godimento in condizioni di parità dei diritti e delle libertà fondamentali».
Ora, nel caso specifico l’insulto è stato proferito mentre l’imputato aggrediva due giovani donne nere per cacciarle da dove si trovavano, e gli provocava lesioni: quindi è connesso precisamente a un tentativo di negare il loro godimento del diritto fondamentale occupare lo spazio e di preservare la propria integrità fisica – implicitamente, di esistere. La logica leguleia della Corte invece separa le parole dai comportamenti di cui invece sono parte integrante, o premessa immediata. Per esempio. Se uno cerca «sporco negro» su Google, trova sempre storie di contestualità o rapido passaggio dalle parole alle azioni. In un bar di piazzale della Radio a Roma, due tizi dicono al barista africano, «sporco negro, ora torno con la pistola e t’ammazzo» e, passando dalle parole ai fatti, si ripresentano subito dopo armati e gli puntano una semiautomatica col colpo in canna alla gola. Oppure: se (come ha raccontato il Corriere della Sera) un bambino in una scuola della collina Fleming a Roma si sente dire «sporco negro, puzzi» queste parole accompagnano anche un comportamento concreto che lo priva di un diritto fondamentale: l’esclusione dai giochi e dalla socialità dei compagni di classe che lo insultano.

Ma anche l’immaterialità delle parole può ledere diritti non meno fondamentali per il fatto di essere immateriali. Il bambino della collina Fleming cancella tutto quello che scrive perché ha paura di essere giudicato; e (come l’africano Olaudah Equiano nel 1780 o l’italo-franco-sarawi Nassera Chora nel 1993 – o il pulcino Calimero in un famoso Carosello di tanti anni fa) chiede ansiosamente alla mamma, ogni mattina, di lavarlo più a fondo per ripulirlo della sporcizia che ormai è sicuro di avere addosso e che – «sporco negro», appunto – ritiene incarnata nel colore della sua pelle. Sarà o no un diritto fondamentale, per un bambino, o per un adulto, quello di sentirsi a proprio agio nella propria pelle e non avere disprezzo di sé?

C’è una radicata e irriflessa strategia di negazione di cui questa sentenza fa parte: i fatti esistono, ma il razzismo non c’entra. Sulla collina Fleming il direttore della scuola nega che sia successo (e comunque è colpa del bambino); ma il più delle volte presidi e direttori ammettono il mobbing verso bambini immigrati ma negano che c’entri il razzismo – come quei commentatori calcistici che sostengono che il verso della scimmia ai giocatori neri non è un messaggio razzista ma solo un modo di farli innervosire. Noi italiani siamo brava gente, non siamo razzisti, il razzismo o non esiste o sta sempre da un’altra parte. Infatti eravamo brava gente anche quando bombardavamo i libici o sterminavamo i preti copti in Etiopia. Ogni caso è un caso isolato; magari si possono stigmatizzare gli atti ma sempre negandone la motivazione razzista.

Penso a certe sentenze del dopoguerra (anche di Cassazione) contro le spie che denunciavano gli ebrei ai nazisti. Come ha mostrato Amedeo Osti Guerrazzi in un utile libro recente (Caino a Roma. I complici romani della Shoah, Cooper, 2005), i tribunali e la stessa corte di Cassazione nel dopoguerra consideravano il fine di lucro delle denunce molto più grave e importante del fine razziale, per cui una delazione fatta per puro odio razziale finiva per non essere punibile in quanto tale. Insomma, persino la consegna degli ebrei ai nazisti non poteva essere pensata come atto razzista e andava derubricata in reato comune. Anche qui, il razzismo non c’entra…

D’altra parte, uscivamo appena da un’epoca in cui dire «sporco ebreo» non solo non era reato ma era quasi un dovere patriottico. E se «sporco negro» non è un insulto razzista, perché non lo sarebbe qualunque espressione analoga verso altre identità? Che direbbe la suprema corte di Cassazione, se qualcuno denunciasse di essere stato chiamato «sporco ebreo»? Non è un’ipotesi astratta. Il razzismo è indivisibile; un insulto a uno scatena il pericolo per tutti. Se uno cerca «sporco arabo» su Google, trova le stesse storie: «Non mio piaceva andare a scuola e mi inventavo delle scuse. Tipo: papà non ci vado perché un compagno mi ha chiamato sporco arabo. Mio padre mi obbligava a lavare le mani e mi invitava a dire l’indomani, no, sono un arabo pulito». Se uno cerca «sporco ebreo», rischia di imbattersi in blog dove impazzano irripetibili fantasie razzistico-scatologiche. Scrive Edgar Morin che uno degli insulti preferiti dei poliziotti francesi è «sporco arabo»; al tempo stesso, Pierre-André Taguieff ha scritto: «Ti dicono `sporco ebreo’ e la polizia classifica l’insulto come `atto di inciviltà’», anziché come manifestazione razzista. Commenta Taguieff: «Ormai il termine è diventato un insulto qualunque, un equivalente di ‘idiota’». La nostra corte di Cassazione è felicemente avviata sulla stessa strada dei poliziotti francesi – e oltre. Gli echi sinistri del linguaggio della sentenza sono ancora più profondi.

Insultare gli ebrei era un dovere patriottico perché, come diceva il documento degli intellettuali razzisti da cui scaturirono le leggi razziste italiane del 1938, «le razze esistono». Nonostante tutto quello che antropologi e genetisti hanno detto in contrario, da Lévi-Strauss a Cavalli Sforza, la corte di Cassazione mostra di pensarla ancora allo stesso modo e parla di «chi appartiene a una razza diversa» come se fosse pacifico che, appunto, «le razze esistono». Basterebbe questo per porsi problemi seri su che cosa siano la cultura e il dilagante senso comune che hanno dettato una simile sporca sentenza.