Per decenni i sindacati nel mondo si sono sentiti dire che l’inflazione è il peggiore dei mali, accompagnato dal deficit pubblico visto come corresponsabile del primo. La situazione in Giappone dimostra concretamente che tutta questa manfrina era e resta una costruzione ideologica. Ora le agenzie di informazione economica esprimono soddisfazione per il fatto che in Giappone l’indice della dinamica tendenziale dei prezzi sia in aumento – dello 0,1% – per la prima volta in 25 mesi. Evviva! l’aumento dei prezzi confermerebbe che il paese sta uscendo dalla deflazione che lo affligge da oltre un decennio.
Il vero significato di questa notizia non risiede sulle ipotesi che induce riguardo le sconosciute ed imponderabili tendenze future dato che l’economia, sia in termini di prezzi che in termini di produzione marcia a tentoni da un breve periodo all’altro, mente oggi l’unica area economica ove, per scelte politico-istituzionali, sono identificabili dei processi di lunga durata è la Cina.
Il significato della notizia sta nel fatto che svela la dimensione della crisi nipponica. L’economia del paese è in costante stato di sovrapproduzione perché le imprese del paese hanno affrontato lo stallo ultradecennale nel tasso di crescita con ristrutturzioni tecnologiche che però hanno aumentato anche la capacità produttiva. Sono trent’anni che il Giappone si porta appresso un fardello di capacità inutilizzata che non riesce ad eliminare e non sarà certo il lievissimo aumento ipotetico, perché tendenziale, dei prezzi a predisporre l’eliminazione.
Se il paese non è affondato in una grande depressione lo deve ai proventi dalle esportazioni nette e dai redditi provenienti dagli investimenti effettuati all’estero dalle multinazionali nonché dal deficit pubblico che raggiunge il 7% del Pil. Tuttavia anche qui si nota il limite del keynesismo non militare, quindi non statunitense: il deficit non è riuscito a rilanciare l’accumulazione.
Per rilanciare il Giappone ci vorrebbero ancora molti decenni di crescita cinese ma è da prevedere che fra alcuni anni sarà Pechino, ove le multinazionali giapponesi effettuano la maggioranza degli investimenti diretti, ad esibire un export netto nei confronti di Tokyo. Il futuro del capitalismo giapponese si giocherà probabilmente sulla tensione tra il potenziamento della capacità di esportazione della Cina attraverso gli investimenti diretti ed il subappalto e la volontà di mantenere in patria le industrie dei mezzi di produzione sulle quali si regge la forza delle multinazionali nipponiche.