In una drammatica intervista al quotidiano New York Post, Mario Lozano, il soldato americano che uccise Nicola Calipari, ha dichiarato di avere sparato all’ auto dell’ agente del Sismi e di Giuliana Sgrena, la giornalista del manifesto, perché «non volevo ritornare a casa in una bara». Parlando per la prima volta ai media, il soldato scelto del 69esimo reggimento di fanteria, incriminato di omicidio politico in Italia, ha sostenuto di essere stato costretto ad aprire il fuoco a Bagdad «perché a meno di 100 metri da te chiunque è dentro la zona di pericolo e tu devi eliminarlo». Lozano, ancora scosso, ha descritto l’ uccisione di Calipari e il ferimento della Sgrena il 5 marzo del 2005 come un tragico incidente causato dalle regole di ingaggio. «Ai posti di blocco ci sono una linea di allarme, una di pericolo, una di fuoco. Se esiti quando qualcuno le supera, tu finisci in una bara. Qualsiasi altro soldato nella mia posizione avrebbe fatto lo stesso». Lozano ha raccontato al quotidiano conservatore, di proprietà del magnate dei media Rupert Murdoch, che due giorni prima «su quella strada un’ autobomba aveva ucciso due miei commilitoni». All’ avvicinarsi dell’ auto italiana «feci lampeggiare i potenti fari della torretta del mio Humvee. A quel punto, qualsiasi iracheno avrebbe inchiodato i freni, ma l’ auto proseguì, avvicinandosi a velocità. La guardai venire avanti con occhi sgranati, sparai prima a terra poi al motore». Il New York Post ha messo le dichiarazioni del soldato scelto in prima pagina, osservando che non ebbe scelta, accompagnandole con una sua foto in divisa e il titolo «Linea del fuoco». Sottotitolo: «Un soldato scelto di New York svela il suo tormento per l’ uccisione da “fuoco amico”». Nell’ intervista, Lozano, scagionato dal Pentagono al termine di una breve inchiesta, e il padre Mario sr. hanno criticato duramente la Sgrena: «Non comunicò la posizione dell’ auto all’ esercito americano e più tardi sollevò un polverone». L’ uomo che sparò a Calipari lamenta che la sua vita è diventata un incubo e afferma di dover prendere farmaci antistress: «Il mio matrimonio è fallito, non potrò fare il poliziotto, il mio sogno». E ha implicitamente incolpato gli italiani: «Devo convivere con il fatto che qualcuno è morto perché non ha rispettato gli ordini e che sono stato io a premere il grilletto». Al contrario la Sgrena, ha aggiunto, «ha una vita ben diversa dalla mia, sta facendo soldi ed è famosa». Un riferimento al libro Fuoco amico: «storia di una giornalista rapita in Iraq, salvata da un agente dei servizi segreti italiani, ferita dalle forze Usa» che la Sgrena ha lanciato anche in America. L’ inviata del manifesto, che a marzo partecipò a una marcia a Washington per la pace in Iraq, ha ribattuto sullo stesso New York Post che non sta facendo soldi con il libro e narra solo ciò che accadde: «Se Lozano intende dire la sua, si presenti al processo in Italia. Non voglio che diventi un capro espiatorio ma che spieghi la sua posizione». La Sgrena ha affermato: «Non so se spararono per uccidere, o per ordinare di fermarci. È la questione più importante da chiarire». Il quotidiano non commenta sulle sue risposte, ma evidenzia i contrasti tra l’ Italia e gli Usa sulle responsabilità della tragedia, e precisa che Lozano non si presenterà al tribunale italiano. Nel processo in contumacia che inizierà il 17 aprile a Roma, è accusato di «violazione macroscopica delle regole d’ ingaggio»: secondo l’ inchiesta italiana, l’ auto di Calipari procedeva a bassa velocità e stava rallentando al posto di blocco quando Lozano aprì il fuoco. Finora il militare aveva sempre rifiutato le interviste. Ha accettato di parlare ad un giornale che appoggia la guerra in Iraq e che ha preso le sue parti, per discolparsi in vista del processo. Tace invece il Pentagono che considera il caso chiuso e ritiene che la giustizia italiana non abbia giurisdizione su un evento avvenuto in Iraq.