Sotto l’ombra dei missili

Faccio lezione in un’università a poche centinaia di metri da Sderot. Qualche giorno fa, uscendo da lì con la macchina, ho sentito gli altoparlanti annunciare che nel giro di venti secondi sarebbe caduto un altro missile Kassam. Non sapevo cosa fare, se iniziare il viaggio andando a zigzag o far finta di non aver sentito l’allarme. Negli ultimi mesi è successo di frequente che nel bel mezzo delle lezioni sentissimo l’annuncio e poi l’esplosione. Fino a tre settimane fa sentivamo anche la risposta dell’artiglieria mentre volavano sopra di noi aerei ed elicotteri. In alcuni dei kibbutz hanno protestato per la continua risposta dell’artiglieria israeliana. Non riescono a dormire così.
Nell’agosto dell’anno scorso le forze israeliane hanno sloggiato gli ultimi coloni della Striscia di Gaza e non pochi israeliani, palestinesi e altri nel mondo hanno creduto che stesse cominciando una nuova era. Ma Gaza è completamente circondata dal mare, dalla frontiera egiziana e dalle forze israeliane. A Gerusalemme, un ex ministro palestinese ci diceva qualche mese fa: Gaza era una grande prigione con occupanti israeliani; dopo l’evacuazione è una prigione con un cortile per l’ora d’aria più grande di prima.
Ebbene sì: a Gaza non sono rimasti né i coloni, né l’esercito israeliano. La ritirata ha creato una doppia illusione; in primo luogo, ha alimentato la visione secondo cui la forza della resistenza armata ha portato alla ritirata e in seconda battuta ha creato l’illusione dell’indipendenza. Ma l’elettricità a Gaza dipende da Israele. Anche l’entrata e l’uscita di prodotti dipende da Israele. E gli aiuti che dovrebbe ricevere qualsiasi governo palestinese che desideri funzionare dipendono da Israele. Recarsi al lavoro in Israele è un privilegio di cui godono solo poche migliaia di persone, rispetto alle decine di migliaia del passato, con un chiaro effetto per l’economia. L’economia di Gaza dipende da Israele e dall’estero. E la fame di Gaza dipende da un’economia distrutta, che dipende a sua volta dagli aiuti esterni. Con un’enorme disoccupazione, e una fame crescente.
L’uscita da Gaza assicurava grandi dividendi politici a Sharon in Israele e all’estero e al tempo stesso occultava la realtà quotidiana: mentre tutti aspettavano l’inizio di nuovi negoziati israelo-palestinesi, non succedeva niente. E si cominciava a generare nuova rabbia, altra disperazione.
L’illusione che gli israeliani siano stati scacciati da Gaza con la forza si poteva unire al fatto che evidentemente Abu Mazen e Fatah non erano capaci di arrivare a negoziati con Israele. Con un quadro simile non è stato difficile immaginare il risultato delle elezioni di pochi mesi dopo. L’enorme corruzione dei vertici di Fatah, insieme all’immobilismo politico, ha reso possibile una facile vittoria per Hamas. Continuando la politica che ha portato alla ritirata e all’isolamento di Abu Mazen, Sharon costruiva chiaramente la base per una nuova scalata. Non appena le forze israeliane sono uscite da Gaza, è cominciata subito una serie di azioni in Cisgiordania che dimostravano come l’esercito israeliano avrebbe cercato di consolidare il suo dominio nel resto dei territori occupati.
Non si può credere che la repressione crei la paura solo nell’occupato. La continua azione dell’esercito in diverse regioni ha posto ai palestinesi un serio dilemma. La presunta tregua alla quale Hamas ha acconsentito ha portato a una sospensione degli attacchi in Israele e a una sensazione di tranquillità generale nella regione. Quando sono riprese le azioni terroristiche in Israele, questo è stato il segnale per una maggior repressione nei territori occupati.
Poco dopo l’insediamento del nuovo governo di Hamas, la crisi politica si è accentuata: Israele ha dichiarato che non si doveva trattare con i terroristi e ha invitato i paesi occidentali ad adottare la stessa linea. Siccome questo non era sufficiente, è iniziato l’embargo economico, un modo ulteriore di intervenire nel duro processo che si era messo in moto nella società palestinese. Con l’asfissia che veniva provocata dall’esterno, con un’economia in rovina, quando le masse di burocrati e i poliziotti hanno visto che i loro salari non arrivavano sono iniziate le lotte intestine e questo ha portato persino a varie uccisioni di leader di Fatah o degli organismi di sicurezza fedeli ad Abu Mazen da un lato, ad Hamas dall’altro.
Sderot
Sderot è una città di circa 20.000 abitanti. Grazie alla nostra università ci sono stati alcuni cambiamenti sensibili in una città colpita dalla povertà che per anni è stata abbandonata da migliaia di persone in cerca di un futuro migliore. Secondo alcuni circa 70.000 persone sono passate di là nel corso degli anni, per la chiusura di orizzonti che ha sempre caratterizzato la città, l’abbandono, il degrado generale della periferia.
A Sderot le speranze sono poche. Per anni sono arrivate in città nuove ondate di immigrati, in generale i più poveri, provenienti per esempio dalle repubbliche asiatiche della ex Urss. L’indice di disoccupazione è molto alto. Negli ultimi cinque anni una nuova piaga si è aggiunta alla situazione economico-sociale: Sderot è a pochi chilometri dalla Striscia di Gaza e ogni tanto i palestinesi decidevano che l’espressione della loro forza militare si sarebbe manifestata nei missili Kassam lanciati contro gli abitati intorno alla Striscia di Gaza.
Centinaia di missili sono caduti sui kibbutz e sulle colonie agricole della regione e centinaia a Sderot. Mentre le reazioni nei kibbutz e nella periferia contadina politicamente più sviluppata erano moderate – preferivano quasi ignorare il fatto, a Sderot sono caduti nel campo fertile della demagogia della destra che ha sempre invitato a rispondere con la forza alla pioggia di missili.
Negli ultimi anni cinque sono state le vittime di quei missili. Alcuni erano bambini di quattro, cinque anni che non erano esattamente il «nemico sionista» di cui parlavano i comunicati di Hamas. Non lo era nemmeno la figlia di Perla, che lavora con noi. Da un anno il suo sorriso è scomparso. La figlia stava andando semplicemente a trovare il suo ragazzo in un kibbutz della regione quando il missile ha stroncato la sua vita di studentessa e di innamorata.
Negli ultimi mesi la popolazione di Sderot è diventata il capro espiatorio della cieca politica israeliana e della sua controparte: il fondamentalismo islamico che avanza e si alimenta della violenza. Centinaia di missili hanno trasformato la vita in un vero inferno. Il fine settimana successivo all’uccisione di sette palestinesi sulla spiaggia – e non importa quale sia stata la vera causa di quella morte: loro sono morti per la criminalità di entrambe le parti – circa cinquanta missili sono caduti sulla città.
Nella scuola adiacente al nostro campus i genitori hanno deciso che ci sarebbe stato sciopero degli alunni e che non li avrebbero mandati a scuola. Domenica scorsa i bambini non sono venuti, ma Nati è andato al lavoro come al solito. È uscito da un edificio per andare in un altro e là è stato raggiunto da un missile. È in fin di vita all’ospedale.
A Sderot abita il ministro della difesa Peretz. L’intendente ha eccitato e incitato i coloni: bisogna distruggere Beit Hanun. Beit Hanun è un’altra città a Gaza. Da lì sarebbero stati lanciati non pochi dei missili, non per uccidere i coloni, ma per distruggere la città.
La disperazione è terra fertile per tutti gli estremisti che si affrettano ad arrivare in loco. E chiudono la città con quello che dovrebbe essere uno sciopero a tempo indefinito ma che si esaurisce in un giorno. Sciopero della fame di fronte alla casa di Peretz: che assurdità! Peretz, che arriva a casa sua, conosce i coloni e abbraccia alcuni di loro, continua a mantenere una linea relativamente moderata. Ma gli elicotteri continuano le loro azioni antiterroristiche, e non sempre sono perfetti. A volte uccidono bambini o coloni: «terroristi che si preparavano ad attaccare».
Olmert si reca a New York, a Parigi, a Londra, ma non a Sderot. Qui l’estremismo regna sovrano e solo poche voci parlano con saggezza. Ahlama, la moglie di Peretz, che lavora con noi, dichiara in televisione che l’unica soluzione è negoziare. E lo dice anche suo figlio in un altro programma, e Zohar, che orchestra i preparativi. Un giornalista israeliano ha scritto che se le famiglie di Peretz e Olmert governassero il paese le cose andrebbero meglio.
E i Kassam continuano a cadere. E le azioni dell’esercito israeliano hanno già provocato quaranta morti «accidentali». La maestra intervistata alla radio lo riassume bene: abbiamo già impiegato tutte le forme della violenza. Perché non cercare di parlare con Hamas?

Trad. Marcella Trambaioli