George Steiner è la perfetta antitesi di quei «barbari» che Baricco, nel suo «saggio d’appendice» (su Repubblica n.d.r.), viene brillantemente evocando con intelligenza critica e un po’ ruffiana (lui, laureato in filosofia, sa meglio di me che l’invenzione dell’ «anima» non è una trovata della borghesia ma risale almeno a Platone). Pensando a Steiner, mi viene da fantasticare su quel pagano ignoto il quale, ultimo e circondato ormai da cristiani convinti, in qualche piana pannonica o radura germanica o speco appenninico avrà celebrato l’ultimo sacrificio ai suoi dèi scomparsi. Se ricordo bene, tanti anni fa era uscito anche un libro in Germania (dove, se non in Germania, un libro sui fasti del paganesimo?) intitolato Al dio invitto, forse a suo tempo anche tradotto in italiano, e dedicato, mi sembra, all’epopea degli ultimi seguaci di Giuliano l’Apostata. Nella realtà, ovviamente, non ebbe luogo alcun ultimo sacrificio, e ancora parecchi secoli dopo Giuliano cristianesimo e paganesimo coesistevano intrecciati, spesso nello stesso individuo, come storia e folclore insegnano: le cose umane che contano non finiscono mai con uno schianto ma, eliotianamente, con a whimper. Però a me piace lo stesso immaginare che un ultimo officiante l’ultimo sacrificio davvero ci sia stato, così come c’è Steiner, ultimo umanista circondato dai barbari baricchiani, che ancora celebra il culto del libro e il rito della lettura.
Già anni fa, commentando il quadro di Jean-Baptiste Chardin Le philosophe lisant, scrisse sulla lettura un saggio memorabile (Una lettura ben fatta, poi raccolto nel volume Nessuna passione spenta, Garzanti 1997). Torna ora sullo stesso tema, dilatandolo e con virtuosismo dialettico, in un testo intitolato Le silence des livres, pubblicato da Arléa di Parigi (già uscito nel 2005 sulla rivista Esprit col titolo La haine du livre).
I libri possono tacere per vari motivi: perché qualcuno li zittisce o anche perché ce ne sono troppi sul mercato e nella ressa si elidono a vicenda o semplicemente perché sono inutili, non hanno letteralmente nulla da dire. Ma secondo Steiner la sopravvivenza del libro è intrinsecamente problematica fin dall’inizio: «Tendiamo a dimenticare che i libri, vulnerabilissimi, possono essere eliminati o distrutti. Come ogni prodotto umano, hanno la loro storia, una storia il cui cominciamento contiene già in sé la possibilità, l’eventualità di una fine»; così l’attacco del saggio, che prosegue «La parola scritta disegna un arcipelago nell’ampio mare dell’oralità». Basta pensare che «l’epopea di Gilgamesh o i frammenti più antichi della Bibbia ebraica sono recenti, più vicini all’Ulisse di Joyce che alle proprie origini, le quali risalgono al canto arcaico e al racconto orale». E se la sensibilità occidentale attinge a una doppia sorgente, Atene e Gerusalemme (meglio parlare di «sensibilità» e «sorgente» che irrigidirsi in «identità» e «radici»…), è indubbio che Socrate non ha scritto un rigo e Gesù di Nazareth ha tracciato, subito cancellandola, solo qualche misteriosa parola sulla sabbia, davanti a una donna accusata d’adulterio. E Platone, che pure ha scritto tanto e con tanta arte, nel Fedro esalta, paradosso aurorale della nostra storia, la superiorità del dire e dell’ascoltare rispetto allo scrivere e al leggere.
Un grande vantaggio dell’oralità è, tra gli altri, quello di basarsi sulla memoria. Inglese e francese hanno lo stesso modo meraviglioso per dirlo: par coeur e by heart, coinvolgendo così il centro intimo e vitale dell’uomo: la parola «si innesta e fiorisce dentro di noi, arricchendo e modificando il nostro paesaggio interiore». E anche imparare a memoria un testo scritto è «un esercizio di rendimento di grazie e una musica dello spirito». Ma oggi la memoria non è più carne e sangue, è archivio, casellario di dati avulsi dal contesto e, circoscritti nel brevissimo cerchio dell’istante, privi di storia, quindi di vita: «la grande arte mnemonica è caduta nell’oblio. L’educazione moderna assomiglia sempre più a un’amnesia istituzionalizzata». Altroché Mnemosine madre delle Muse!
Ma se tutto oggi congiura per anestetizzare o addirittura ferire a morte la memoria, alla conclusione di un lungo processo che dai Vangeli e soprattutto da Paolo di Tarso giù giù scoscendendo lungo i secoli dell’umanesimo, della Riforma e di Montaigne, dell’Illuminismo e della grande narrativa ha visto il trionfo della parola scritta, assistiamo ormai anche all’atrofizzazione della lettura. E non solo per motivi tecnologico-culturali, ma anche per ragioni economiche e ambientali.
Leggere significa anche mettere in relazione un testo con un altro, studiare e annotare, cercare agganci e sviluppi, confrontare con altre opere di uno stesso autore o periodo, poter accedere con facilità ai sacri testi, ai classici, ai commenti che proliferano l’uno sull’altro: in due parole, tempo e biblioteche. Non solo quelle pubbliche, ma anche una propria biblioteca domestica, dove poter ritrovare libri letti e annotati magari anni prima, o dimenticati e riemergenti dall’oblio: il tessuto segreto di una vita. Per i ceti privilegiati del passato era normale che in casa ci fosse la bilioteca-studio, la stanza dove appartarsi per la lettura, la riflessione e la consultazione, o anche semplicemente per chiudersi, come un ragno nella propria tela, entro le spire di un romanzo. E per i non abbienti l’aspirazione alla cultura del libro per i propri figli era costante. Ricordo ancora, nell’Italia degli Anni Sessanta, artigiani e operai che fecero la fortuna dei ratealisti, acquistando intere collane di classici o enciclopedie come status symbol, sì, ma molto di più come investimento (che fosse in gran parte onirico non conta ai fini del discorso) per il futuro familiare. Ma oggi, nei miniappartamenti della piccola borghesia ormai classe generale, alla biblioteca si è sostituita, quando va bene, la stanza dei media. In ogni caso, quando ci sono, gli scaffali offrono il loro risicato spazio anche a dischi, dvd, albi di foto, dischetti del computer. E i libri, per lo più, si leggono e si buttano, anche perché i fondamentali, cioè i classici, sono ormai quasi sempre tascabili, da tenere nelle strettoie dei jeans o nello zainetto, e si leggono nei tempi morti della giornata, mentre le novità, salvo qualche libro di culto, si fanno circolare tra amici e conoscenti in un giro che si chiude con la fine della moda del momento. Per lo studio c’è Internet, che risponde a ogni bisogno: salvo che a quelli della fisicità, dell’accertamento accurato, della selezione, della lenta metabolizzazione.
La lettura ha inoltre bisogno di solitudine, di concentrazione, di silenzio. Stati tutti contro i quali congiura l’intero stile di vita contemporaneo. Per Steiner, che a un Salone del Libro, subito dopo aver tenuto la sua lectio magistralis, mandò nel panico il bravissimo e diplomatico Ernesto Ferrero accusando vivacemente di nazismo un gruppo rock che gli era succeduto sul palco con amplificatori al seguito, l’invasione del silenzio, la consuetudine al rumore di fondo che accompagna e riempie ogni momento della giornata, l’inquinamento acustico sono il «colpo alla nuca» inferto alla lettura, almeno alla lettura come la conosciamo tradizionalmente. «E’ possibile (e non è una prospettiva sconfortante) che il tipo di lettura che ho tentato di definire e che ho chiamato “classica” torni a essere una sorta di passione particolare, insegnata nelle “case di lettura”, cui abbandonarsi come Aqiva e i suoi discepoli dopo la distruzione del Tempio, o come era praticata nelle scuole monastiche e nei refettori dei conventi medioevali».
Ma l’analisi solo apparentemente nostalgica, in realtà lucida e problematica, si chiude con un ultimo rovesciamento dialettico. Il grande tema, di retrogusto adorniano, che attraversa tutta l’opera di Steiner è quello dell’impotenza della cultura. Di tutta la cultura, che non ha saputo impedire la barbarie nel cuore più colto d’Europa: mentre Furtwängler dirigeva la Nona di Beethoven o Bultmann e Gadamer discutevano degli scoli ai tragici greci, in quello stesso momento, a poche centinaia di metri, alla stazione ferroviaria sicuramente transitavano verso le loro tragiche mete i treni dei deportati. Per non parlare di autori amati come Pound, Claudel, Céline e delle loro «orrende inclinazioni politiche». O di Heidegger, il filosofo ammiratissimo, su cui Steiner ha scritto un libro introduttivo di straordinaria penetrazione, e al tempo stesso uomo addirittura enigmatico nella sua stupefacente furbastra meschinità personale. «L’essenziale di questa gioiosa coincidenza tra la più sistematica disumanità e una forma di simpatia o di indifferenza, creatrice di alta cultura, resta da chiarire» scrive a questo punto Steiner. E affaccia un’ipotesi che lo coinvolge anche personalmente e che lo angoscia perché, se verificata, metterebbe in crisi il suo stesso residuale ma convinto umanesimo. Dopo una vita trascorsa a insegnare e a scrivere, a leggere e a rileggere, si domanda se la forza della creazione letteraria non sia talmente più vigorosa della realtà da distoglierne: «Che cos’è questo grido che viene dalla strada confrontato con quello di Lear a Cordelia o con quello di Achab avvinto al suo demone bianco?». La straordinaria intensità della finzione satura il lettore partecipe più di ogni principio di realtà, e paradossalmente potrebbe darsi che «il culto e la pratica dell’umanesimo, lo studio e la frequentazione diuturna dei libri siano fattori di disumanizzazione».
Di qui la domanda che vale anche per noi che coi libri siamo a vario titolo coinvolti: «Come professore per cui la letteratura, la filosofia, la musica, le arti sono la sostanza stessa della vita, in che modo posso tradurre questa mia necessità in lucidità morale, cosciente dei bisogni degli uomini e dell’ingiustizia che rende possibile la cultura? Le torri che ci isolano sono più solide dell’avorio. Non conosco una risposta soddisfacente a questa domanda».
Forse, senza saperlo, la stanno dando i «barbari» di Baricco, con la loro aliena e ignara trasversalità. A loro modo la danno anche le migliaia di persone (però non è detto che siano tutti lettori: il feticismo può essere più forte della passione) che tra pochi giorni invaderanno Mantova in festa, così come la danno quelli che a maggio accorrono a Torino. Ma non penso sia questa la risposta cercata da Steiner.