Sorpresa, c’è ancora una sinistra ottimista

Questo che viviamo non è certo il tempo dell’ottimismo. Riemergono guerre, integrismi religiosi, sciovinismi, razzismi. Le «conquiste del lavoro« di cui si andava orgogliosi sono ostacoli da abbattere. Le donne debbono ricominciare a rivendicare la proprietà del loro corpo. Il presente si fonda sul precariato e il futuro ha l’immagine di una pensione incerta. Riappare persino l’incubo di una replica del governo Dell’Utri-Berlusconi. Da gran tempo ci è stato spiegato quanto fosse ingenuo e sbagliato pensare ad un lineare sviluppo «in avanti» della storia. Ma ora, ricorda Eco, si va con il passo del gambero. Il pessimismo, come si ripete continuamente, è una dote dell’intelligenza. Ma forse questa dote sta andando in eccesso, tanto da ridurre al lumicino la volontà e il suo possibile ottimismo. E ciò accade in modo più frequente e più acuto a molti che avevano sperato nel sole dell’avvenire, tanto che più d’uno ha scelto lietamente le tenebre del passato.
Invece, questo agile saggio di Adalberto Minucci (Comunismo. Illusione e realtà, Editori Riuniti, pp. 85, euro 10), animato da una profonda sicurezza nelle proprie buone ragioni, esprime un fiducioso ottimismo di sinistra. L’intento è di riportare l’attenzione sulla condizione attuale del sistema economico e sociale capitalistico, mettendone in rilievo quegli elementi di crisi che derivano proprio dal suo nuovo sviluppo. Non è una autobiografia, come quella di altri esponenti del Pci della più anziana generazione (o le precoci memorie dei cinquantenni), pur se una premessa autobiografica il saggio ce l’ha in funzione del testo: perché Minucci ricorda come egli sia stato tra i primi a vedere le modificazioni nei mezzi e nei metodi della produzione e del lavoro e, di conseguenza, nella composizione delle classi lavoratrici e nell’assetto del capitale mentre una parte grande del Pci pensava ancora di avere a che fare prevalentemente con l’arretratezza.
Una posizione innovatrice, dunque, che però sulla scorta di Karl Korsch e di Cesare Luporini difende il suo Marx in garbata discussione con chi come Guido Carandini ne scinde la figura separando lo scienziato sociale dal militante rivoluzionario. La idea di rivoluzione, si sottolinea qui, non ha per Marx niente di velleitario, ma è come un «processo di storia naturale», quasi un puro riflesso del mutamento della «base economica», quando cioè «lo sviluppo delle forze produttive» entra in contraddizione «con i rapporti della produzione». È il Marx che prevede il tempo in cui l’intero processo produttivo diverrà una pura «applicazione tecnologica della scienza» sicché il lavoro stesso si presenterà solo come un «organo cosciente» nella forma di pochi operai-tecnici viventi in vari punti del sistema delle macchine.
È allo stadio del capitalismo avanzato, quando cioè si manifesta una reale contraddizione insuperabile tra forze produttive e sistemazione giuridica dei rapporti sociali, che sorge il bisogno del cambiamento. La illusione fu dunque che si potesse costruire una società socialista a partire da una condizione di sottosviluppo capitalistico com’era quella della Russia (e Lenin si ricorda pensava che il socialismo sarebbe venuto con la rivoluzione in Occidente) e, in più senza partecipazione democratica. Una illusione titolata, perché fu anche quella del giovane Gramsci, quello della «rivoluzione contro il capitale» (di Marx): ma bisogna aggiungere che non si può mettere sulle spalle di Gramsci ciò che hanno detto e fatto dopo di lui coloro che vollero esserne gli eredi noi compresi.
Ma se quella fu la illusione, la realtà è che il suo crollo non ha generato la fine delle difficoltà e della crisi del modello capitalistico nella fase della sua massima espansione. Per crisi non si intende in questo testo una ripresa di previsioni di crollo (anche se si ricorda la crisi del 1929), ma una incapacità di egemonia e, cioè, di governo e di controllo dei fenomeni macroscopici ben noti della polarizzazione tra ricchezza e povertà, tra sviluppo e sottosviluppo, tra crescita economica e rovina ambientale. Sembra all’autore che proprio lo sviluppo tecnologico venga creando quella che egli chiama una «nuova unità sociale» e quella che Marx definì una «classe operaia superiore» cioè un processo di espansione della tecnicità (l’informatica) e di innalzamento conoscitivo che avvicina operai, tecnici, impiegati in una potenziale somiglianza di condizione. Si pone oggettivamente, si sottolinea qui con Keynes, il tema di una programmazione pubblica dello sviluppo e, più precisamente, di una programmazione sociale dello sviluppo dato che a comporre il valore della forza lavoro ci sono una serie di servizi e beni pubblici (l’istruzione, la sanità e anche il trasporto, l’abitazione, ecc.). Si ha così quella compresenza di «elementi di socialismo» di cui parlò Enrico Berlinguer all’interno medesimo della società capitalistica. E l’autore conclude, dunque, rivalutando la parte innovativa della tradizione del Pci e lo sforzo di Berlinguer di definirne una nuova identità. La esigenza che si afferma è quella di riprendere a sinistra una analisi della realtà e delle classi per definire una nuova cultura all’altezza dei tempi, anziché indugiare ancora in un tatticismo e in un politicismo che non hanno dato buona prova.
Minucci non si è proposto di comporre un testo di studio, ma uno scritto politico. E sa bene, e ricorda, che ciascuno dei temi che egli pone è oggetto di vasta letteratura e di molte dispute. Ma è utile, appunto, la scelta politica di riproporre con serietà una critica argomentata al preponderante pensiero liberistico, i cui guasti sono oggi più visibili di ieri. Minucci è critico, come chi scrive e altri, verso una liquidazione del Pci così frettolosa da aver impedito una discussione sugli errori veri e su ciò che andava recuperato. Naturalmente ci sono in proposito questioni che chiedono nella sede di un riesame storico una spiegazione che un breve saggio non può dare. Il fatto che una società socialista può nascere solo dopo e non prima del pieno sviluppo capitalistico fu un tema assai trattato: ma bisogna capire perché in tanti non solo comunisti coltivarono un’idea opposta e perché pur credendo, o mostrando di credere, in questa idea sbagliata i comunisti italiani riuscirono tuttavia a divenire forza decisiva per la democrazia nel loro paese. Ciò che conta, comunque, è il bisogno di serietà, anche per evitare oscillazioni e sbandamenti come quelli che si sono avuti tra i democratici di sinistra riguardo a Berlinguer, dimenticato dapprima, e aspramente criticato poi, salvo rivendicarne l’eredità quando ha fatto comodo. Ma questo scritto non è meno critico verso certe improvvisazioni che vengono da altre parti della sinistra e in special modo verso quel verbalismo massimalistico che fu sempre considerato vacuo e pericoloso da Gramsci in giù.
Una lettura svelta e utile, a me sembra, non solo per mostrare quali stupidaggini si sono dette e si dicono a proposito di quel che fu realmente il Pci, ma soprattutto per riaprire una discussione sull’attuale fase del capitalismo. Per troppo tempo, nelle sinistre, il modello capitalistico è stato privato della sua storicità sia per arrivare a considerarlo eterno come un fatto di natura, e così giustificare una resa, sia per esecrarlo incondizionatamente come se fosse sempre eguale a se stesso. Ma il capitalismo, come ogni altra creazione umana, ha una propria vicenda, una propria trasformazione continua, ed è composto da elementi che ne spiegano la vitalità e altri che ne annunciano difficoltà e caducità.
Non era la fine della storia la vittoria di un modello che ha riproposto la guerra preventiva e ha generato una così paurosa situazione di ingiustizia e di contrapposizione nel mondo. La ripresa di una capacità critica verso il sistema dato è vitale per tutta la sinistra. Temere, come accade, che la critica al sistema dato faccia velo alla capacità di governo è un non senso. Proprio per vedere i limiti entro cui ci si può muovere ma anche le reali possibilità di un’opera riformatrice, bisogna sapere come funziona il meccanismo e quali siano le sue contraddizioni. Questo saggio è una esortazione a non dimenticarlo.