«Sono fuori dallo show per me parla Cipputi»

Non ha un volto noto alle masse, non è un frequentatore di talk show, è anzi la persona più lontana dal rampantismo e dal protagonismo che si possa immaginare.
Schivo, riservato, rintanato nella sua Aquileia. Eppure, ha molte cose da
dire e lo fa regolarmente indossando la tuta blu di un metalmeccanico, il
più famoso operaio italiano che risponde al nome di Cipputi, Cippa per gli amici. Intervistare la penna che lo disegna è forse più difficile che intervistare una vignetta di Cipputi, anche perché la vignetta dice già tutto da sola senza richiedere domande aggiuntive. Siamo riusciti a convincere Francesco Tullio Altan a rilasciarci questa intervista in cui non sveleremo retroscena né particolari piccanti, rispettando la riservatezza del personaggio. Né a chi domanda né a chi risponde interessa il gossip.

Altan, sono trent’anni che racconti l’Italia e i suoi cambiamenti, con qualche escursione oltre Atlantico, guardandola con gli occhi di un operaio metalmeccanico di cui usi il linguaggio. Perché questa scelta?

Nel mio mestiere, e non solo nel mio, le scelte sono abbastanza rare. Cipputi è venuto fuori tra altri personaggi o coppie di personaggi, padre e figlio, solo per fare un esempio. E’ successo che via via si è fatto spazio tra gli tutti altri disegni ma questo è avvenuto, devo essere sincero, in modo non del tutto consapevole.

Solo un caso, dunque? Nessuna motivazione di fondo?

Negli anni Settanta vivevo a Milano e naturalmente ero stimolato dal contesto. Sullo sfondo c’erano le grandi lotte operaie che per me hanno funzionato da motore.

Chi è Cipputi, in quale fabbrica lavora?

Cipputi è un po’ Fiat e un po’ Alfa Romeo, a me suona più come milanese, mi sembra di sentire il suo accento.

Anche se è nato un po’ per caso, si è fatto spazio, dicevi…

Si è fatto spazio per l’intensità, se vuoi la centralità che aveva l’operaio
di linea in quella stagione. Mi ritrovo in Cipputi per la concretezza della
sua esperienza, se l’ho aiutato a crescere è perché la sua era la lingua
che avrei voluto sentir parlare. In quegli anni c’era anche il movimento
studentesco, è ovvio. Ma Cipputi, oltre ad avere un punto di vista altrettanto forte di quello degli studenti era maggiormente radicato nelle cose.

Non ti è arrivata la voce che la classe operaia è morta? Ce lo dicono in
bianco e nero, «siamo nel postindustriale, Cipputi». Ma se è così, perché
Cipputi ha scavalcato il millennio e continua a commentare la società e la politica?

Gli operai non sono spariti. Diciamo che è scomparsa la loro voce, per essere più precisi è diminuito l’interesse per Cipputi di chi decide cosa è vero e cosa non lo è. L’organizzazione del lavoro è cambiata profondamente e la voce della catena di montaggio si è affievolita.

Però tu, nel 2005, continui a offrire il microfono a Cipputi, tant’è che
è appena uscito un libro che ci regala il meglio di quell’operaio in tuta
blu.

Una volta Vittorio Foa, mi sembra proprio sul manifesto, scrisse che Cipputi rappresentava l’uomo che lavora e che ha la coscienza del proprio lavoro, della propria condizione. Quella definizione per me è ancora valida: cambiano il contesto, i luoghi, le mansioni e le macchine ma non sparisce il lavoro, perciò Cipputi vive. Diminuiscono però quelli che hanno coscienza della propria condizione e del proprio lavoro.

Dunque, lunga vita a Cipputi.

Sì, continuerà a vivere. Ora lo sfodero soprattutto nei momenti importanti.
Per farti un esempio, quando si mette sotto torchio la Costituzione ho bisogno delle parole e del volto di Cipputi, perché è un punto di riferimento forte che aiuta a ragionare dentro i processi di svolta. Mi rivolgo a Cipputi quando si frullano i grandi temi della convivenza civile perché è proprio in questi momenti che si rende necessaria una concretezza per riuscire a navigare.

In tanti si chiedono che faccia abbia il vero Altan. Perché non ti si vede
mai nei salotti della politica e del gossip, o dove altri soggetti – artisti,
giornalisti – tentano o pretendono di surrogare il vuoto della politica con
il proprio protagonismo?

Io sono fuori dallo spettacolo, per me parlano i miei personaggi, Cipputi
e i suoi compagni. Quando c’è da apparire non riesco a pensare niente.

La tua è una critica al modello di comunicazione dominante?

Lo è, anche se mi contraddico perché poi la televisione la guardo. Ho la
scusante che sono costretto a farlo per il mio lavoro. Ma dalla tv, dai suoi assidui frequentatori, non mi arrivano segni forti, è come se non ci fossero mai il tempo e il tono per capire ciò di cui si parla. Solo agonismo e spettacolo.

Invece Cipputi è concreto. Se domani tu avessi i soldi, la voglia e le persone necessarie per fare un giornale, come lo faresti?

L’informazione di cui sento il bisogno è un’informazione in cui il fruitore
non abbia il dubbio che quel che viene raccontato è raccontato per qualche scopo. Un’informazione quasi impossibile da realizzare.

Sintetizzo così: ci vorrebbero capacità, volontà e autonomia per andare a vedere e raccontare la realtà e i cambiamenti.

Al tempo stesso devo dirti che preferisco i giornali schierati, non paludati.
E ti ripeto che ogni volta che guardo la tv e i suoi spettacoli, nessuno
mi toglie il dubbio che mi stanno dicendo quel che mi stanno dicendo per
uno scopo.