In Somalia c’è la guerra. Ormai è ufficiale, dopo le dichiarazioni di giovedì mattina del leader delle Corti islamiche Sheikh Hassan Dahir Aweys. Da Mogadiscio, la martoriata capitale somala che le Corti controllano, assieme alla maggior parte della Somalia centro-meridionale, dal giugno scorso, Aweys ha lanciato un appello alla popolazione affinché “tutti i somali prendano parte ai combattimenti contro l’Etiopia”.
L’invito di Aweys è arrivato al termine della seconda giornata di scontri aperti tra le truppe delle formazioni islamiche e quelle delle deboli istituzioni transitorie somale che, nate nel 2004 dopo un lungo processo negoziale in Kenya, non sono mai riuscite a rendere effettivo il loro potere e a governare davvero il paese. E che, con l’appoggio dell’Etiopia, da mesi si sono rifugiate nella città di Baidoa, a circa 250 chilometri da Mogadiscio. È attorno a Baidoa, l’unica fetta di territorio ancora rimasto sotto il controllo del governo transitorio, che i combattimenti di mercoledì e giovedì si sono concentrati. In particolare sulle due strade che permettono a Baidoa il contatto con l’esterno.
Le prime avvisaglie di guerra c’erano state già martedì sera, poche ore dopo la scadenza dell’ultimatum di sette giorni che le Corti avevano dato all’Etiopia per ritirare le proprie truppe dalla città governativa. Un ultimatum andato puntualmente a vuoto, com’era prevedibile. Le Corti però non sono passate immediatamente all’azione. E anzi hanno dipinto gli scontri di mercoledì, iniziati come una scaramuccia e poi intensificatisi man mano che alle due parti arrivavano rinforzi, come dei “semplici incidenti”. Parole dello stesso Sheikh Hassan. Che però il giorno dopo ha cambiato radicalmente tono, chiamando all’unità nazionale in funzione anti-etiopica.
Ottenere l’appoggio della popolazione non sarà difficile per le Corti. Sebbene stanchi di guerra, il sentimento di antipatia nei confronti dello scomodo vicino è così forte e ha radici così antiche che difficilmente i somali si sottrarranno dall’appoggiare un conflitto che, stando alle dichiarazioni ufficiali, vuole liberare la Somalia “dall’invasione straniera”. Inoltre, contro molte previsioni e analisi occidentali, in questi sei mesi le Corti islamiche sono riuscite a riportare una relativa pace nelle città e nelle regioni che hanno conquistato. A partire dalla stessa Mogadiscio, fino a fine maggio divisa in zone di influenza controllate da signori della guerra in continua lotta tra loro, al cui soldo i miliziani taglieggiavano la popolazione ai check-point. Ora a Mogadiscio nessuno chiede più soldi a nessuno per attraversare una strada, i prezzi di molti beni di prima necessità sono scesi, il porto e l’aeroporto, dopo undici anni, hanno riaperto. Miglioramenti non da poco per chi è stato abituato per quindici anni a vivere in guerra, che hanno fatto accettare relativamente di buon grado le limitazioni che le Corti hanno imposto in nome dell’islam.
Le prospettive ora, però, sono tutt’altro che rosee. Nonostante Louis Michel, il commissario europeo per la cooperazione e gli affari umanitari, sia riuscito mercoledì a strappare alle due parti l’impegno a sedersi nuovamente e senza condizioni al tavolo negoziale imbastito dalla Lega Araba a Khartum, in Sudan. Mentre però le dichiarazioni di Michel di ritorno da Baidoa e da Mogadiscio rimbalzavano nei media internazionali, le armi continuavano a farla da padrone nei rapporti tra i due contendenti.
Ristabilire un clima ideale per i negoziati, naufragati già a fine ottobre, sarà prova molto ardua. Anche perché la comunità internazionale, nella “persona” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, ha perso credibilità ed equidistanza approvando il 6 dicembre una risoluzione, la 1725, che dà il via libera formale a una forza internazionale regionale con il compito di “monitorare e mantenere la sicurezza a Baidoa” e permette alle istituzioni transitorie di riarmarsi. L’ultimatum delle Corti all’Etiopia e gli scontri degli ultimi giorni sono venuti di seguito.ù