Soldato Ryan, tuo padre è Griffith

Gli Usa gendarmi del mondo. Gli Usa «esportatori» di democrazia. Ma anche gli Usa che, intervenendo nelle guerre dalla parte giusta, in qualche occasione ­ diciamo la prima e la seconda guerra mondiale, è sufficiente? ­ hanno spostato gli equilibri dei conflitti e hanno permesso di sconfiggere la barbarie nazista… È la storia del XX e del XXI secolo, e quante volte l’abbiamo vista al cinema, in modo diretto o indiretto. Ebbene, il «padre di tutti i film» sull’interventismo americano è stato il vero evento della 24esima edizione (terminata ieri sera) delle gloriose «Giornate del cinema muto», ancora parcheggiate a Sacile in attesa del ritorno a Pordenone: che era previsto per quest’anno, ma non c’è stato, perché nel Teatro Verdi, finalmente ricostruito nel capoluogo, da circa 500 posti (su quasi 1.000)… non si vede, che ci crediate o no, lo schermo.
Vabbè, dai «capolavori» dovuti alla genialità congiunta di architetti e politici passiamo a un capolavoro vero: il film di cui sopra, Hearts of the World di David Wark Griffith (1875-1948), ospite ormai fisso delle Giornate che da 9 anni portano avanti un «Griffith Project» in cui si proiettano tutti i suoi film ancora visibili. Ogni anno, l’incontro con il patriarca costringe le anime belle convinte che il cinema sia nato con Tarantino – o, se va bene, con Spielberg – a riscrivere interi capitoli di storia. Stavolta la copia restaurata di Hearts of the World (1918) ci ha scoperchiato il cervello, costringendoci una volta di più a dare atto, a Griffith, di aver inventato tutto, ma davvero tutto. Chiunque ha fatto cinema dopo di lui, non ha fatto che copiare.
La visione del film, ambientato nella prima guerra mondiale, è stata preceduta dal breve filmato Griffith at the Front, «Griffith al fronte»: 11 minuti di immagini girate dal cameraman inglese Frank Bassill, che documentano la visita effettuata dal regista sul fronte occidentale nel maggio del 1917. È un fatto di cui si sapeva, anche perché fu ampiamente utilizzato nella campagna pubblicitaria del film, venduto al pubblico americano come «girato nelle trincee del conflitto europeo». In realtà, pochissime immagini girate in Francia finirono nel film, ma vedere Griffith, vestito in modo inappuntabile, che si calza l’elmetto in testa e si infila nelle trincee, a salutare soldati visibilmente stremati dalla guerra, fa un’impressione forte e ambigua. Da un lato l’effetto «gita in trincea» è insopprimibile e fastidioso, dall’altro non si può trascurare l’apporto propagandistico che la nascente Hollywood, con il suo più grande artista, va a fornire agli alleati inglesi e francesi. Gli Stati Uniti erano entrati in guerra solo il 6 aprile del 1917: il giorno dopo, il 7, Griffith era a Londra per la prima europea di Intolerance. In quell’occasione incontrò il primo ministro britannico Lloyd George (altra scena ripresa nel filmato) e fu da lui invitato a girare un film sulla guerra in corso. Griffith non si tirò indietro.
E raccontando la storia di una famiglia americana che vive al confine tra Francia e Germania, e viene coinvolta nel conflitto, creò una formula cinematografica che sarebbe stata riciclata infinite volte, e funziona ancora oggi. La formula prevedeva: 1) l’uso della «parte per il tutto», ovvero una storia individuale (qui, l’amore tra due giovani, interpretati da Lillian Gish e Robert Harron), un microcosmo che lascia intuire l’immensità del conflitto in corso; 2) la sapiente alternanza di toni epici e toni comici, tutti affidati, questi ultimi, al debordante talento di Dorothy Gish, sorella di Lillian; 3) la demonizzazione del nemico – qui i tedeschi, spesso definiti «huns», unni -, reso ancor più laido dalla presenza di infiltrati nel fronte «amico»; 4) il lungo prologo pacifico, addirittura idilliaco, che viene poi sconvolto dalla violenza; 5) la catarsi finale: possono morire migliaia o milioni di persone, ma se si salva la persona amata il lieto fine è assicurato. È, quest’ultima, la filosofia spielberghiana di Salvate il soldato Ryan e di Schindler’s List, ma se avete visto ieri La tigre e la neve di Benigni sapete di cosa stiamo parlando.