Soldati contro la guerra

Nella sua casa di Gonnoscodina, in Sardegna, Salvatore Pilloni si sta preparando per andare a Roma. Nella valigia ha già messo una videocassetta, «dimostra gli effetti nefasti dell’uranio impoverito, e non lo dico io, lo dicono fior di scienziati». Il viaggio per lui non sarà una passeggiata: ha 73 anni, è un grande invalido del lavoro e sta perdendo la vista. «Però io ho quaranta famiglie che vengono appresso a me. Dove mi chiamano, vado». Famiglie di militari reduci dalla ex Jugoslavia e dall’Iraq morti o malati. «Per colpa dell’uranio impoverito», dice il signor Salvatore. Suo figlio Giovanni, maresciallo elicotterista, lotta da due anni contro un tumore. Due settimane fa la commissione d’indagine del Senato ha negato il rapporto diretto tra il «metallo del disonore» e i casi di tumore registrati tra i militati. Un’amarezza in più per il signor Salvatore. E una ragione in più per partecipare sabato mattina a Roma (palazzo Valentini, via IV Novembre 119) all’incontro pubblico «Soldati contro la guerra» che farà da premessa al corteo del pomeriggio. Nel terzo anniversario dell’inizio della guerra in Iraq, l’incontro vuole documentare l’opposizione alle guerre delle associazioni di familiari dei soldati e degli stessi militari. Un’opposizione forte negligli Stati Uniti, quasi inesistente, se si eccettua la mobilitazione contro l’uranio impoverito, in Italia. Fabio Alberti, presidente di «Un ponte per», spera che l’incontro stimoli un po’ di coming out tra i militari italiani. «Se verrà la guerra, ci salverà il soldato che non la farà», cantava Fabrizio De Andrè. Anche se non emerge, sostiene Alberti, tra i volontari di stanza a Nassirya c’è scontento. Certo prendono una buona paga, ma anche quella potrebbe non bastare «quando uno si accorge di rischiare la pelle non per esportare la democrazia me per difendere gli interessi petroliferi dell’Eni».

Il nome più noto tra i «convocati» a Roma da mezzo mondo è quello dell’israeliano Yonathan Shapira, uno dei primi refusenik che hanno pagato anche con il carcere il rifiuto non di indossare la divisa ma di disonarla partecipando ad azioni di rappresaglia contro i palestinesi. Vengono dallo stesso fazzoletto di terra l’israeliano Ory Yossur e il palestinese Raed Al-Haddar, dell’Associazione «Combattenti per la pace». E’ annunciata la presenza di una madre russa dell’associazione contro la guerra in Cecenia. Arrivano dagli Stati Uniti Lou Plammer, di Military Family Speak Out, e Jeremy Nickel, dei Reduci dall’Iraq contro la guerra. Anche in Inghilterra le famiglie dei soldati si stanno organizzando contro la guerra e di questo parlerà George Salomou.

Un inglese trapiantato a Napoli, Philip Rushton, di recente ha dedicato un libro alla mobilitazione negli Usa dei veterani e dei familiari di soldati. Il titolo Riportiamoli a casa ora ricalca lo slogan della campagna lanciata nel 2003, rinvigorita la scorsa estate dal caso eclatante di Cindy Sheean. Sabato, all’assemblea a Roma, Rushton dirà che la guerra pesa parecchio nel crollo di Bush nei sondaggi (a marzo il suo indice di gradimento è sceso al 36%). E evidenzierà due novità. Le grandi manifestazioni di massa hanno lasciato il posto a piccole ma diffuse mobilitazioni, concentrare non a caso nei paesi dove ci sono basi e arsenali militari. Al sito della campagna per riportare a casa «i nostri ragazzi» da un po’ arrivano molte lettere di gente che ha votato per Bush. Non siamo ancora arrivati «al punto del Vietnam», ammette Rushton, però gli americani hanno capito che la guerra in Iraq non è stata vinta, costa un sacco di soldi e rischia di allargarsi. Arruolare volontari è un’impresa sempre più difficile.

All’incontro di sabato mattina Falco Accame rappresenterà l’Associazione dei familiari delle vittime delle Forze armate e, da ex militare dissidente, dirà una cosa che forse non piacerà a molti: «Abolire l’esercito di leva è stato un grandissimo errore. Adesso abbiamo i mercenari, solo che li chiamiamo professionisti». Raffaella Bolini, dell’Arci, afferma che l’assemblea di sabato mattina sostanzia entrambe le parole d’ordine di questo 18 marzo: l’Italia ripudia la guerra e ripudia lo scontro di civiltà. «Saremo insieme palestinesi, israeliani, russi, statunitensi, inglesi, italiani. Per dire che il movimento pacifista costruisce le sue alleanze sulla convivenza tra diversi, senza steccati di nazionalità e di religione».