Incertezza, insicurezza, e una dose crescente di infelicità. E’ questa la cifra del cambio di paradigma che nell’arco di almeno tre decenni ha scarnificato nella sostanza (e il processo è in divenire) i sistemi sociali sui quali si è innestata, in Europa, la «società del benessere». Il presente appare segnato da un aumento dei rischi sociali, e da una sempre più marcata traslazione del loro peso dalla collettività all’individuo. E’ questa la fotografia che emerge dal «Rapporto sullo stato sociale 2008», elaborato dal dipartimento di economia pubblica della Sapienza di Roma e dal Criss (centro di ricerca sullo stato sociale), e curato da Felice Roberto Pizzuti, docente di economia pubblica alla Sapienza.
L’accresciuta instabilità dei mercati globalizzati, l’evoluzione demografica e i mutamenti dei sistemi produttivi e di welfare dei paesi più sviluppati (su cui compiutamente e articolatamente si concentra il rapporto) hanno concorso ad aumentare l’incertezza nelle relazioni economiche e sociali, e la parte di esse che ricade sugli individui. La direttiva europea sull’orario di lavoro (che vorrebbe fare piazza pulita delle 48 ore settimanali) non è che l’ultima (in ordine di tempo) picconata al modello sociale europeo. Più in generale, «nell’ambito di politiche macroeconomiche rivolte essenzialmente al risanamento e alla compressione dei bilanci pubblici, le istituzioni del welfare sono state oggetto di interventi restrittivi». In Italia, come nel resto d’Europa.
Esemplari di questa «traslazione del rischio» sono le riforme pensionistiche, come anche gli orientamenti presi a livello europeo in materia di mercato del lavoro dove, l’interesse per la cosiddetta flexicurity (modello di welfare che cerca di compensare l’accrescimento dei rischi per i lavoratori con più efficaci ammortizzatori sociali e politiche attive del lavoro), si è tradotto prevalentemente in un aumento della flessibilità e in ultima istanza della precarietà del lavoro. E ancora: l’abolizione dei meccanismi di indicizzazione dei salari ai prezzi, motivata dall’obiettivo di spezzare la spirale inflazionistica, non ha fatto che scaricare gli oneri della stabilizzazione monetaria sul contenimento dei redditi da lavoro dipendente. Negli ultimi anni si è ulteriormente diffusa la teoria (tutta da dimostrare) del trade-off, secondo cui la spesa e l’azione dello stato sociale frenano la crescita economica e perciò vanno contenute. Diametralmente opposte le considerazioni del Rapporto. Secondo il quale gli effetti della maggiore incertezza che ricade sugli individui influenzano molti comportamenti – si pensi alla scelta di procreare – e generano, anche a parità di reddito, percezione di maggiore povertà e di minore benessere. Mentre «ciò che distingue i paesi europei più avanzati è un circolo virtuoso in cui il welfare state (e dunque la spesa pubblica) favorisce innovazione produttiva, competitività e crescita, facilitando la stessa capacità di finanziamento della spesa sociale».
Meno stato e più mercato, recita la vulgata. Se presa ad esempio, la riforma del sistema pensionistico in Italia dimostra l’esatto contrario. Si è fatto un gran dire del «sistema a capitalizzazione» (la previdenza complementare), e il 2007 è stato l’anno del «silenzio-assenso» per l’adesione dei lavoratori dipendenti (e il trasferimento del loro trattamento di fine rapporto, Tfr) ai fondi pensione a capitalizzazione. A metà 2008 gli iscritti sono saliti al 28%. Il rapporto mostra però come, nel 2007, i rendimenti reali al netto delle spese sono stati negativi, specie nelle gestioni più sbilanciate verso gli investimenti azionari (quelle dei cosiddetti ‘fondi aperti’), con costi di gestione invece più alti fino a cinque volte rispetto ai più sicuri fondi negoziali, o ‘chiusi’. Dall’altro lato si è andato progressivamente indebolendo il sistema pubblico «a ripartizione» (così detto perchè le uscite delle prestazioni previdenziali vengono finanziate con i contributi dei lavoratori attivi). L’adeguamento triennale dei coefficienti (con cui si calcola l’importo pensionistico), rispetto all’ipotesi di tenerli fissi, comporterà un ulteriore allontanamento delle pensioni dalle retribuzioni fino a circa il 7% (fino a 3.300 euro all’anno, è la stima).
Ma come si diceva, l’esempio italiano non è che un tassello di una tendenza di lungo corso in atto in tutta Europa. A differenza dei principali paesi europei però, in Italia è la spesa pensionistica ad assorbire la quota più rilevante della spesa sociale complessiva. La spesa sanitaria è pari al 6,8% del Pil, contro una media europea (l’Europa a 15) del 7,7% del prodotto lordo. Per non dire della spesa per la famiglia (1,1% del Pil, contro una media del 2,2%) e di quella per la disoccupazione (0,5% del Pil, contro l’1,7%). Complessivamente la nostra spesa per gli ammortizzatori sociali è pari a un terzo di quella europea. Anche per quanto riguarda l’istruzione (che a differenza delle statistiche ufficiali, il rapporto prende in considerazione) siamo sotto la media europea, con un investimento di risorse pari al 4,5% del prodotto interno lordo. Povertà e disuguaglianze nella distribuzione del reddito sono in aumento ovunque, ma è ancora l’Italia il paese dove le disuguaglianze intergenerazionali sono più persistenti. E dove più scarsa, per converso, è la mobilità sociale.